Fonte: La Stampa
di Antonella Rampino
Il presidente emerito: «L’Italia si batta per far passare questa linea. Dobbiamo imparare a gestire in comune più sovranità condivisa»
Presidente Napolitano, a che punto è davvero l’Europa? Non ci sono più leader con un’idea alta dell’Unione, anche figure come Angela Merkel oggi sembrano fragili.
«In Europa c’è una realtà notevolmente integrata e profondamente interconnessa, solo la politica è rimasta nazionale. Andiamo fuori strada, se un leader, anche aperto a ulteriore integrazione, ha come assillo fondamentale la scadenza elettorale interna, magari sostenendo che crede nell’integrazione europea e proprio per questo non deve perdere le elezioni. Ci sono elezioni ravvicinate in Francia e in Germania (più tardi in Italia) e si parla di rimandare le scelte più impegnative. Invece bisogna essere convinti e tenere una linea europea lungimirante: non c’è Stato nazionale europeo, anche il più potente ed efficiente, che possa contare – e nemmeno salvarsi – da solo nel mondo di oggi. I leader politici, proponendo scelte europee avanzate, avrebbero dalla loro i fatti, la realtà storica, le implicazioni del cambiamento mondiale. Rischiando, magari, nel rapporto con l’opinione pubblica. Ma ricordiamo che Kohl accettò di rinunciare al marco, e le elezioni le vinse».
Anche la posizione di Angela Merkel sull’immigrazione è coraggiosa…
«Lo è, e molto, nei confronti dei richiedenti asilo. La Cancelliera certo guarda al futuro, al proprio paese e all’Europa in condizione di recessione demografica, cercando di dare una risposta politica. Anche di fronte a fatti come quelli di Colonia, la leadership tedesca si è opposta al nesso meccanico tra aggressioni di quel tipo e politiche di immigrazione o asilo».
Il ritardo nell’integrazione europea è anche una perdita di memoria?
«Mitterrand nell’ultimo discorso al Parlamento europeo disse che quel che conta è l’Europa delle culture, non delle nazioni chiuse in se stesse. Guai se si ritorna al passato. “E il nazionalismo è la guerra!”, gridò. Noi oggi siamo di fronte proprio a rigurgiti nazionalistici. L’illusione folle di poter conservare, tenendo in vita e rilanciando le sovranità nazionali, tutto quello che si è acquisito in benessere e perfino opulenza. Non è così. Si tratta di gestire in comune più sovranità condivisa, come ci indica anche l’articolo 11 della nostra Costituzione».
Una volontà politica che adesso manca. Su quale terreno si può ricostruire? Sull’immigrazione?
«Un terreno dell’unione politica penso debba essere naturalmente quello della politica estera e di sicurezza comune. De Gasperi e Spinelli insieme proposero – nel Trattato della Comunità Europea di Difesa – una “Comunità politica europea”, e invece il percorso deviò verso la comunità economica… Occorre riprendere l’intuizione del 1954. E poi ovviamente c’è da condividere una strategia di sviluppo, il passaggio dall’unione monetaria a quella economica a guida politica: progetti di investimento comuni, completamento dell’unione bancaria, un bilancio europeo fondato su risorse adeguate».
Può funzionare un’Europa a due velocità, o a cerchi concentrici come si dice oggi? Potrebbe aiutare a tenere con noi la Gran Bretagna alle prese con la Brexit?
«Due velocità, cerchi concentrici, Grande Europa e nocciolo duro… le formule le abbiamo inventate tutte, e del resto cominciò Mitterrand nel 1991 quando, aprendo a Est, parlò di una confederazione europea e di una federazione al suo interno… Abbiamo già un’Eurozona a 19 anche se non omogenea su scelte di fondo, e un’Europa dei 9. Gli inglesi poi vorrebbero una collaborazione regolata tra queste due Europe: certo dobbiamo essere aperti a questa discussione, ma stando attenti a che non si mettano intralci e veti alle decisioni di quanti vogliono un’Europa più strettamente integrata».
Ma in questo travaglio, qual è il ruolo dell’Italia?
«Secondo me deve essere quello di promuovere e perseguire maggiore integrazione, a partire dall’immigrazione. Un fronte sul quale abbiamo fatto molto, delineando anche una nuova strategia di reale condivisione delle responsabilità, anche se poi si resta condizionati dall’anacronistico accordo di Dublino. L’Italia si deve battere per un regime comune europeo di immigrazione ed asilo, ponendosi così in linea con la propria migliore tradizione europeistica. Ma davvero non vorrei, in generale, che si arrivasse a una esaltazione delle divergenze nazionali in seno a una già molto scossa Unione Europea».
In cosa vede questo rischio?
«Prenda l’interpretazione delle regole in materia di aiuti di Stato. È un tema che va affrontato viste le prese di posizione opinabili che l’Italia ha ragione di mettere in questione. Ma guardandoci da reazioni che possano apparire protestatarie rivendicazioni nazionali. Guardiamo con attenzione all’intervista che il commissario Moscovici ha dato proprio a La Stampa: quando valorizziamo quello che contiamo di ottenere in termini di flessibilità, dovremmo ricordare anche che, se oggi abbiamo miliardi in più nel bilancio dello Stato, lo dobbiamo all’Europa, alla Bce, alla sua linea nel comune interesse europeo. Non avere complessi di inferiorità, ma nemmeno il complesso dell’Italia maltrattata».
La questione dei migranti e il terrorismo scavano il solco nella Ue. Come se ne esce nel Mediterraneo?
«Non è solo un problema del Mediterraneo: oggi abbiamo la scottante novità della rotta balcanica. L’Italia ha avuto un ruolo positivo per l’avvicinamento all’Europa dei Balcani occidentali. La Slovenia e la Croazia full members, il negoziato con la Serbia… Ma ora vediamo una ripresa di posizioni islamiste, le criticità e ambiguità della Bosnia-Erzegovina, e il caso del Kosovo, che è oggi il Paese a maggior concentrazione di fondamentalisti. L’Italia fu molto esitante nel riconoscimento della sua indipendenza, fu l’ultima delle grandi nazioni europee a farlo. Dobbiamo prestare molta attenzione su quel versante».
E Putin, Presidente? Dobbiamo considerarlo un partner o un problema?
«Putin è un partner assolutamente necessario, sia per la lotta al terrorismo e al fondamentalismo islamico, sia per altre sfide e crisi globali. Ma è un partner che pone dei problemi. Dobbiamo farcene una ragione, c’è una forte componente di orgoglio e potenza nazionale nella presidenza Putin, che reagisce a quelle che considera mortificazioni del ruolo della Russia subite dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Di qui a definire Putin “Zar”, come non si fece neanche per Stalin… Stiamo attenti a evitare formulette e a non inventare spettri. Confrontiamoci sui nodi da sciogliere, e lavoriamo per una sostenibile cooperazione».