Sostenitori degli aiuti all’Ucraina e fautori di un pacifismo gradito al Cremlino si sono trovati fianco a fianco: una piazza piena di contraddizioni
La tendenza a usare le Europee per regolare i conti interni sembra, di nuovo, difficile da arginare. Gran parte delle mosse di queste settimane rafforzano la sensazione. Perfino la solidarietà nei confronti di Aleksei Navalny, il dissidente lasciato morire, forse assassinato in un lager siberiano, si presenta gonfia di contraddizioni. La manifestazione di ieri a Roma ha rispecchiato questa ambiguità, e il tentativo di usare in chiave nazionale le responsabilità di Vladimir Putin. Sostenitori degli aiuti all’Ucraina e fautori di un pacifismo gradito al Cremlino si sono trovati fianco a fianco: chi per rivendicare una coerenza, chi per allontanare il sospetto di filoputinismo. Ma non è un caso isolato, benché sia quello che ha creato maggiore sdegno per alcune reazioni iniziali e assolutorie come quelle di esponenti della Lega.
Se si guarda alla diatriba che divide la maggioranza, ma anche sinistra e Movimento 5 Stelle, sul numero dei mandati ammessi dei presidenti di regione, il riflesso nazionale è vistoso. Idem le candidature delle e dei leader; e ancora, le polemiche sulle alleanze continentali. Per la Lega, non mettere un limite ai mandati significa disarmare almeno una parte della fronda interna dei potenti governatori del Nord contro il leader Matteo Salvini. Per Giorgia Meloni, l’interesse è opposto. Non si tratta soltanto di piegare protagonismo e conflittualità salviniani. Imporre il limite ai mandati apre la strada a candidature vicine a Fratelli d’Italia.
E dunque, serve a legittimare a livello locale un primato che la Lega fatica a riconoscere. È un tema simmetrico a quello che affronta la segretaria del Pd, Elly Schlein; ma in questo caso soprattutto nel suo partito. Il tentativo è di raffigurare «una destra spaccata» mentre nel Pd «siamo abituati a discutere».
I problemi, però, sono simili. Il «no» dei governatori dem a una candidatura europea sa di voglia di ricandidarsi nelle regioni; e di non assecondare la strategia della segretaria, indecisa sul ruolo da svolgere. Ma il malessere per le indicazioni «romane» è trasversale. Sembra confermato dal rifiuto della grillina Alessandra Todde, scelta da M5S e Pd per il voto in Sardegna di domenica, a chiudere la campagna con Schlein e Conte sul palco. Eppure, è una delle poche realtà nelle quali prende forma l’evanescente «campo largo». Evidentemente, la presenza dei leader non è ritenuta un moltiplicatore di voti. Ma anche la destra ha seguito un percorso tormentato. È singolare che Salvini sostenga che in Sardegna «sarà referendum tra Lega e M5S». Eppure, il candidato è quello imposto dalla premier. Rimozione indicativa.