Per governare il problema si dovrebbe collaborare tra schieramenti (e tra nazioni) sapendo che la salita è impervia e ciò che oggi aiuta una fazione domani la penalizzerà
Entro il 2050 avremo un miliardo di sfollati, ha calcolato Michel Agier, un antropologo francese che da trent’anni si dedica a studiare la globalizzazione, le frontiere, l’idea stessa di straniero. Ovviamente non verranno tutti in Europa: questa massa immensa di esseri umani si sposterà da una parte all’altra del mondo, non per turismo o lavoro ma per mera sopravvivenza. Per allora comunque, secondo il network One, l’Africa nostra dirimpettaia raggiungerà i due miliardi e mezzo di abitanti, metà dei quali avrà meno di venticinque anni: i ragazzi africani sopravanzeranno di dieci volte quelli europei, diventati merce rara.
Le migrazioni sono antiche come l’uomo, certo. Il mito vuole Roma fondata dai discendenti di Enea, in fuga da Troia distrutta dagli achei: un profugo di guerra, come i siriani o gli eritrei che bussano a Lampedusa. Tuttavia, in questo nuovo millennio, segnato da globalizzazione e facilità di movimento combinate a conflitti sempre più feroci e cambiamenti climatici sempre più devastanti, è diventato strutturale il moto planetario verso un futuro migliore e verso territori caratterizzati da benessere e denatalità. Il propellente, inesauribile, è la speranza. La conseguenza, inevitabile, sarà l’osmosi, un grande rimescolamento di etnie e culture, religioni e tradizioni, da cui i nostri nipoti usciranno assai diversi da come siamo noi. È la semplice realtà. Immaginare che dietro tutto ciò ci sia un piano organizzato di sostituzione etnica è un po’ come pensare che lo sbarco sulla Luna sia una fiction o che il nonno di Bill Gates abbia diffuso l’epidemia spagnola e suo nipote lo abbia imitato con il Covid.
Ma, fuor d’ironia, il passaggio sarà difficile: lo è già. Se non governato con saggezza, può diventare drammatico: molto più di adesso. Tenere presente il contesto è utile, tuttavia, a frapporre un filtro tra noi e la comunicazione politica in materia. Chiunque sostenga di avere in tasca la soluzione di un rompicapo così complesso ci sta mentendo. Purtroppo, le migrazioni sono da qualche decennio una potente droga elettorale. Come tutte le droghe ha contraccolpi micidiali, può causare cadute non meno veloci delle ascese. È la strada che pare avere imboccato Gerald Darmanin, il ministro degli Interni francese protagonista dell’ultimo incidente diplomatico con Roma, nella sua competizione a destra con Marine Le Pen. Puntando all’Eliseo nel 2027, il giovane pupillo di Nicholas Sarkozy sembra intenzionato a seguire le orme del suo mentore politico che nel 2005, quando occupava la poltrona più alta di Place Beauvau, si impose all’attenzione degli elettori dando del «racailles», feccia, ai migranti violenti della banlieue di Argenteuil e promettendo di spazzarli via. I dolori delle banlieue sono ancora lì; la storia e le aule di giustizia hanno ridimensionato lui, alla fine.
Sgomitare sugli ultimi arrivati paga, ma non garantisce una stabile fortuna politica. Salvini intercettò con scaltrezza la crisi delle periferie incrociata al boom migratorio della seconda metà degli anni Dieci. Ma, appena sono arrivate nuove urgenze, come Covid, guerra e inflazione, la narrazione securitaria non è più bastata e i consensi sono crollati. La premier Meloni lo ha capito in fretta e, pur non lasciando il tema tutto in mano all’alleato-rivale, ha abbandonato al volo l’inapplicabile «blocco navale», trasformato nel «cosiddetto blocco navale» già nel programma elettorale e poi svanito al sole del buonsenso governativo.
In generale le migrazioni provocano atteggiamenti politici abbastanza stereotipati e non solo in Italia. La destra ha una posizione che potremmo definire emergenziale, poco importa se un’emergenza che dura trent’anni non può definirsi tale: gli immigrati sono, in via principale, una minaccia da contenere, un fattore perturbante annidato nelle pieghe dei nostri ghetti metropolitani, nelle stazioni e nei giardini delle nostre periferie; sicché si tratta di assecondare, quando non di vellicare, le reazioni popolari alla presenza degli stranieri per trarre il consenso con cui contrastare i flussi. La sinistra ha un atteggiamento di stampo negazionista, poiché il contenimento delle migrazioni contrasta con lo spirito universalistico cui è improntata parte della sua cultura: muovendo dall’idea che il modello occidentale è marcio, gli immigrati ci salveranno regalandoci valori nuovi e purezza primigenia, dunque vanno accolti tutti senza se e senza ma; l’unico modo di affrontare i rilevanti problemi di coesistenza e di convivenza civile che essi ci portano fin sull’uscio di casa è fingere di non vederli, negare il problema alla radice. Non è un caso che la questione migratoria sparisca dall’agenda quando governa la sinistra e balzi ai primi posti quando è la destra a tenere la barra.
Potrebbe poi esserci una posizione intermedia, pragmatica, in qualche modo incarnata in Europa dal caso-laboratorio di Bart Somers, il sindaco liberale di Mechelen, nelle Fiandre, che spesso ci capita di citare: combinando integrazione con fermezza, Somers, premiato nel 2017 quale «miglior sindaco del mondo» dal think thank londinese City Mayors Foundation, ha battuto l’estremismo populista, costruito fiducia sociale e accomunato migranti recenti e residenti di lunga data in una identità cittadina condivisa, governando decine di etnie e un quarto di cittadini islamici negli anni delle crescenti tensioni fondamentaliste in Belgio. Lo ha fatto senza specularci sopra e senza averne paura. Non è difficile capire che i migranti possono essere una grande opportunità, per Paesi che invecchiano e perdono forza lavoro; o un grande pericolo, se quei Paesi consentono loro di vagare a migliaia, senza identità né regole, tra un sottopassaggio e un centro d’accoglienza. Si dirà che le elezioni europee ormai prossime ne accentueranno l’uso strumentale, tra Stati e tra partiti: è più che probabile, il copione è già visto. Ma, per governarli, ci sarebbe una sola via: smettere di usarli come una clava contro l’avversario politico, sottrarli al binomio emergenza-rimozione, collaborare tra schieramenti (e tra nazioni) sapendo che la salita è impervia e ciò che oggi aiuta la mia fazione domani la penalizzerà. Un’idea naïf che, quando tutte le altre idee saranno fallite, potrebbe persino convincere qualcuno.