Reportage dai villaggi più colpiti dalla tragedia, dove i soccorsi arrivano col contagocce e i superstiti cercano un riparo come possono
Muhammad si sporge dalla transenna arrangiata dalla gendarmerie usando ciò che resta di una porta di legno, di una finestra. «Lì c’è mia madre», ci dice e non serve che aggiunga altro per capire si tratti di una tragedia. L’hotel in cui era la sua famiglia, adesso, pende martoriato nel vuoto, mattonelle del bagno e brandelli di letti resistono quasi inspiegabilmente alla gravità. Il terremoto che venerdì notte ha ferito il Marocco prendendosi più di duemila vite lo ha lasciato così. Muhammad lo fissa, non piange nemmeno più: «Sono tre giorni che mamma è lì. Era in vacanza con mio padre, mio fratello, la moglie e una loro amica. Sono tutti morti, è la volontà di Allah». La signora Aisha e suo marito Ibrahim sono due delle tre persone rimaste ancora tra le macerie di quell’inferno di polvere e sassi che è oggi Moulay Brahim: i corpi esposti a pochi metri da noi, ancora irrecuperabili. È qui, sulle montagne del Grande Atlante, a Sud di Marrakech, che la scossa è stata davvero spietata, ingoiando vite e calcestruzzo. «C’est tombé», dicono, e il suono sinistro che evoca la parola vale più della sua traduzione: «Crollato, è crollato tutto». Le vie del paesino sono dormitori a cielo aperto: quella che sembrerebbe una discarica è quanto di più simile a un rifugio: assi di legno, un letto in ottone sgangherato, panche spezzate: tutto quanto possa ospitare un materasso, va bene. Senza nulla sulla testa, né speranza. Quella è evaporata quando hanno ritrovato i corpi di una mamma e del suo bambino nato da due giorni. Tre uomini della gendarmerie, quattro pompieri, un’auto che lavora come ambulanza. «Tra ieri e oggi hanno estratto vive quattro persone», e sembra già un miracolo.
Scendendo per una strada martoriata da quella che pare una pioggia di meteoriti grandi come tavoli da pranzo si gira intorno a un benzinaio e, risalendo, si incontra un ospedale da campo che accoglie feriti lievi. Impossibile avvicinarli, ma qualche metro più in là una distesa di terra ospita una ventina di tende blu: cinquanta famiglie dormono distribuite in quei ricoveri di fortuna, ma almeno altre cento sono fuori a chiedere disperatamente un tetto sotto cui dormire. «La vergogna è che danno le tende ai più ricchi: chi può pagare qualcosa agli agenti trova la sua brandina. Noi restiamo fuori. Non abbiamo nemmeno una coperta. E la notte è freddo. Siamo scesi dalle montagne per trovare un riparo, ma non ci vogliono aiutare». Fatyma, sessant’anni su cui la vita ha lasciato segni profondi, un posto per sé e il marito lo ha trovato: «Qui siamo due o tre famiglie per ogni tenda, tante persone cercano alloggio ma i letti sono finiti. Non c’è più acqua, stanno finendo i viveri. Non viene nessuno, a parte questi due poliziotti qui davanti. Facciamo domande ma non ci rispondono, siamo trattati come bestie». Gli animi si scaldano, due uomini urlano, si spingono, gli altri intervengono mentre si stanno prendendo per il collo. Ci avvicina una ragazza: «Io un posto in tenda non lo avrò mai. Sono sola, non sono sposata, un poliziotto mi ha detto: che vuoi? Sei solo una donna, vattene».
Un mulo su cui è stata costruita una lettiga con legno e cuscini è quanto di più simile a un mezzo di soccorso, per gli abitanti di Ait Othmane. «È la nostra ambulanza», ci dicono. «Tanto, persone ferite non ce ne sono. Chi era lì sotto, è già morto». Uno dei posti più vicini all’epicentro è anche tra i meno accessibili. Si scava con le mani tra montagne di detriti. Si cammina scalzi su ciò che una volta era il paese e ora è una enorme necropoli per cercare una sorella, un figlio. Qui chiunque ha perso qualcuno: «Non mangiamo da tre giorni. Non c’è più acqua, siamo disperati, moriremo anche noi che non siamo finiti sotto le macerie». Eppure nella voce non c’è quasi disperazione, solo rabbia: «La morte è una cosa a cui siamo preparati, fa parte di ciò che siamo e solo Allah decide quando è il momento». Avvicinarsi all’epicentro è un viaggio tra ferite lacere: i sensi di marcia sui tornanti sono spariti, si passa alternandosi nei pochi centimetri che la pioggia di rocce lascia agli pneumatici, tra scavatrici in servizio permanente e null’altro: non un’ambulanza, non un mezzo dell’esercito. Basterebbe un’altra caduta a travolgere le auto che si avventurano per portare aiuto spontaneo.
Risaliamo verso Moulay Brahim per poi virare a Sud, direzione Imlil. Un villaggio noto ai turisti che tutto l’anno lo raggiungono per sciare o per il trekking. La strada è ai limiti della percorribilità. Passando da Asni troviamo nuovi ricoveri organizzati: le solite tende blu, con ragazzini di una decina d’anni che si caricano di continuo taniche trasparenti d’acqua sulle spalle. Un ragazzo più grande ne prende due e s’avvia verso i paesi tagliati fuori. Si sale e spariscono le connessioni: telefoni muti, nemmeno più l’energia elettrica. A Imlil però acqua c’è, anche tavolini colorati, alberi di mele, chi insiste a vendere i propri prodotti, olio d’Argan e sacchetti di noci, poche centinaia di metri dopo l’ennesimo accampamento improvvisato, come mille altri sulla strada. In paese ci invitano a mangiare un tajin di verdure e pecora: «Niente posate, usate il pane e le mani». Non contano neanche un ferito, o almeno così dicono per non spaventare i turisti che scendono sorridenti con gli zaini per la loro scarpinata incontrando quad, volanti, camion della gendarmerie e persino un furgone dell’esercito. Qui, nell’unico angolo di Marocco in cui l’inferno non è arrivato.
Mancano un paio d’ore al tramonto, è ora di tornare. Dalle montagne scende incerto verso Marrakech un furgoncino. Nel suo montacarichi un tappeto avvolge dignitosamente una delle duemila persone che la scossa ha ucciso. L’ospedale di Tahnout non prende più una sola persona, forse nemmeno i corpi che ancora, lentamente, emergono dalla tragedia.