19 Settembre 2024

Si sdraia sul muricciolo e guarda il vuoto sopra la testa. Poi racconta: «Almeno ora sono soddisfatta, tutto quello che ho fatto è servito ad aprire il mutuo. Magari è una cosa più grande di me. Non lo so…». Sono le 23 e 45. A Sesto Fiorentino le strade risultano quasi deserte. Che silenzio c’è stasera. Lo interrompe Sofia. «Mi chiedo: starò facendo la cosa giusta? Hanno senso le mie scelte? Mi porteranno a qualcosa?». Si risponde da sola: «È l’età».
La mia e la sua età. L’età dei 28 anni. I 28 anni di una generazione accumulatrice seriale di dubbi che sembra voler camminare nel romanzo 4 3 2 1 di Paul Auster per avere strade moltiplicate per quattro e vivere finali diversi. Per noi giovani-adulti pare esistere solo il momento presente. C’entra la guerra, il cambiamento climatico, l’inflazione, la precarietà. C’entra per molti anche la fortuna di avere una famiglia disposta a coprire spalle e concedere di andare per tentativi. Basta vederci contenti.
Dopo il diploma in Perito aziendale in lingue estere, Sofia si è iscritta a Scienze motorie. Sei mesi di lezione, poi ha mollato per andare a lavorare. «Hai presente l’inetto di Svevo? Mi sentivo una fallita, non studiavo, temevo di perdere la parola». Più che un curriculum, il suo sembra un percorso a ostacoli tra ruoli: back office di showroom, hostess, tour leader, assistente alla poltrona, organizzatrice di eventi, insegnante di inglese. Alcuni svolti anche in contemporanea, e fare due lavori insieme significa che preferisci mangiare in sette minuti per averne 60 tondi per l’altro impiego. Così le ore lavorate, a fine settimana, sono 50. Altro che scansafatiche, altro che sdraiata.
Io e Sofia siamo le ultime Millennials, la generazione sul confine: piccole per ricordare con esattezza l’attentato alle Torri Gemelle, ma non così tanto da prendere ripetizioni su TikTok. Abbiamo attraversato i 25 anni, l’età-ponte, con le mascherine, isolate nelle nostre stanze che nel mentre sono diventate nere, traboccanti di incertezze. «Sono io che sarò sempre incerta o è la mia età? O il mio lavoro?». Mentre queste domande passano da una testa all’altra, io e le mie coetanee seguiamo la stessa bussola: la soddisfazione. Anche con il rischio – e ce lo assumiamo – di passare per egoisti e arroganti per rinunciare a strade già tracciate. Dagli altri, al posto nostro.
Perché ci volete diversi?
Dopo la pandemia, ci siamo ritrovate adulte da giovani. Giovani-adulte a un passo dai 30 anni – ma dalla testa ai piedi sulla linea dei 20 – che hanno il coraggio di firmare delle dimissioni, rivendicare migliori condizioni lavorative, imporre qualche paletto ai superiori. Come se la velocità dell’era digitale in noi avesse avuto un effetto inaspettato: ci ha abbassato i limiti di sopportazione e alzato le aspirazioni.
«Cosa me ne facevo di diverse migliaia di euro al mese se lavoravo in un posto invivibile?». Sofia ricorda gli anni di campagne vendite a Milano, tra centinaia di clienti, sveglie all’alba e notti insonni, quindici giorni su quindici no stop per sette volte l’anno. Penserete, lavorare è faticoso, mica una passeggiata. Sì, ma la salute mentale ha un valore e noi lo rivendichiamo.
Dalle buste paga gonfiate, Sofia ne accetta una da 800 euro (stage) per fare l’assistente alla poltrona. Poi dice no all’indeterminato e sceglie un lavoro di sei mesi. A settembre ne comincerà un altro. È una questione di felicità istantanea, da consumare subito, figlia dei nostri tempi frenetici e senza futuro, più che di incoscienza. Ci va bene anche guadagnare meno. Tanto, mi ha detto un’amica, «povere per povere…». Almeno la mattina ci guardiamo allo specchio soddisfatte. Ma nella società della performance, gli adulti-adulti devono capire che noi puntiamo sul saper essere e non sul saper fare, sovvertendo il loro sistema.
Non è che noi giovani snobbiamo il posto fisso, è che dopo anni di gavetta pretendiamo di più. Altro che viziati e bamboccioni. Vogliamo prenderci il mondo alle nostre condizioni. Uno pensa che lasci un’occupazione perché non sei costante, ma io lascio, dice Sofia, perché voglio crescere ancora. L’ambizione è nemica dello sfruttamento, amica della perseveranza. Quindi, anche nella ristorazione dove mancano 140 mila addetti, basta con la mitologia che le ragazze e i ragazzi non si candidano perché non hanno lo spirito di sacrificio e vogliono il weekend libero, piuttosto sono stanchi di guadagnare pochi euro l’ora.
Sappiamo cosa non vogliamo. Nel nostro nido di dubbi, niente è più necessario del superfluo. Le lamentele superflue, le incertezze superflue, le indecisioni superflue. Tutto serve per incontrarsi. Perché non vedete quello che facciamo? Non siamo spavaldi, al contrario, spesso non ci sentiamo all’altezza. All’altezza per un lavoro, una casa, un figlio. Sofia: «Non mi sento pronta. So che un giorno un bambino lo vorrò, da piccola sognavo di avere 28 anni con il pancione, ora ho la pancia piena di debiti».
Ma come possiamo generare vite se non ci sentiamo realizzati nelle nostre? Se abbiamo appena iniziato a intravedere una strada. Che poi, mi ricorda un’altra amica, Rebecca, quella strada parte spesso proprio dalla carriera. E qui potrebbe arrivare un’obiezione: molte donne hanno avuto i figli da giovani. C’entrano i portafogli, ma soprattutto la visione del futuro. Noi il tragitto lo stiamo disegnando grazie anche alle lotte della generazione X e dei Baby boomer. Vero. Ma prima in tante non si potevano permettere di studiare e poi c’era una prospettiva diversa, di miglioramento. Ora scaliamo il malessere sociale che diventa individuale.
Rebecca è in stage nella tanto ambita azienda di alta moda: «Trovare il posto giusto mi ha ripagata psicologicamente dopo tutti quei cambi di rotta». Adesso sta preparando l’ennesima tesi di fine percorso. «Cosa faccio a gennaio se non mi rinnovano? Ci penso tutti i giorni. Ma non tornerei mai indietro, nella mia incertezza sono felice. Eppure a 18 anni, mi immaginavo la Rebecca di 28 già indipendente, non con uno stipendio di 800 euro, non ancora a casa con mamma e babbo». Il suo sogno le ha fatto cambiare strada molte volte. Prima la laurea in Scienze umanistiche per la comunicazione a Firenze, poi il master in Fashion Business allo IED. Uno stage da 500 euro preso al volo come ufficio stampa in un’agenzia di comunicazione, lo stop prolungato causa Covid e la lunga staffetta di colloqui dopo la quale si è ritrovata ad accettare un impiego in un’azienda vinicola: contratto da 800 euro a 1200.
Lavoro sicuro e vicino casa, ambiente sereno. Penserete, che fortunata Rebecca. Ma quel posto fisso tra le vigne non è abbastanza per lei. Quando le offrono una promozione, si dimette. E non sa ancora che la scuola in cui vuole entrare, il Mita, l’istituto tecnico superiore della moda Made in Italy, l’ha presa. Meglio rinunciare allo stipendio per rimettersi sui libri che fare le visite guidate nelle vigne. Meglio tornare a studiare che buttare serate su LinkedIn ad analizzare i profili di chi nella moda è riuscito a entrare davvero. Anche se devi vivere ancora con i genitori e dimenticare quella casa che volevi comprare. Mentre tuo padre storce il naso perché ha ragione lui, il posto fisso è il posto fisso. Ma quella scuola è l’ultima possibilità e in fondo conta più inseguire un sogno che lo stipendio, almeno al tramonto dei 20 anni.
La verità è che noi giovani cerchiamo di raggiungere i nostri obiettivi anche al costo di posticipare i traguardi canonici. Ci concediamo il rischio di vivere fuori tempo per ritagliarci spazi diversi mentre improvvisiamo una vita che valica gli schemi. È difficile scegliere termini di paragone con le altre generazioni perché stiamo creando un’unità di misura nuova, la nostra.
Sofia è portatrice di Fomo (fear of missing out). Quella paura di perdere possibilità che ti spinge a fare tutto. Che poi non è che temiamo di mancare occasioni, spesso non ci arrivano. E l’incertezza, che si traduce in cambi improvvisi o nell’instabilità lavorativa cronica, pare la via più dritta per arrivare alla felicità.
L’ultima delle amiche con cui parlo si chiama Valentina, è una professoressa di inglese – precaria – in un liceo di Prato. Mi fa leggere una lettera che le hanno scritto studentesse e studenti: tre pagine di ringraziamenti. Con ogni probabilità, l’anno prossimo non riprenderà la stessa classe. In realtà non sa ancora se a settembre avrà un lavoro. Per adesso è in disoccupazione, in attesa delle graduatorie. E per lei, che di anni ne ha 28, è difficile scalare la lista. Meglio continuare a insegnare da precaria che cercare un altro lavoro più stabile. Il lavoro deve essere, la cito, un tutt’uno con l’esistenza: Valentina non rinuncia alla vita fuori dalle aule. Si è sposata a febbraio, tra qualche giorno parte per Tokyo.
Perché, è vero, vogliamo realizzarci nel lavoro, ma pensiamo anche a costruire famiglie, viaggiare, avere passioni. Siamo incontentabili? In realtà proviamo solo a convivere in bilico, anche se nessuno ce lo ha mai insegnato. Non potevano. Prima tutte e tutti sembravano sapere da che parte stare.

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