19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Goffredo Buccini

Il caso di Giulio Regeni al Cairo e quello dei pescatori sequestrati in Libia mettono in luce una triste verità: il ruolo di media potenza regionale è seriamente compromesso


Basta unire i puntini come in enigmistica: il caso Regeni al Cairo e quello dei nostri pescatori sequestrati a Bengasi delineano con chiarezza i contorni del declino italiano come media potenza regionale del Mediterraneo. Una china che rischia di farci scivolare nell’irrilevanza.
Al di là delle formule di facciata, l’Egitto continua a farsi beffe di noi: a fronte dell’inchiesta chiusa dalla nostra procura, ha insistito nella versione della banda di balordi che avrebbe ammazzato Giulio, negando ai nostri magistrati persino il domicilio dei suoi agenti dei servizi sotto accusa a Roma. Con sincronia del tutto casuale ma significativa, un personaggio infinitamente più debole di Al Sisi come il generale Haftar detiene da oltre cento giorni diciotto pescatori di Mazara del Vallo in una residenza militare sorvegliata, avendo prima provato a scambiarli, come un qualsiasi bandito, con alcuni scafisti libici da noi condannati e incarcerati.
Il dolore della madre di Regeni, che rifiuta d’essere ridotta allo stereotipo della mamma piangente e si erge come pubblica accusatrice degli egiziani ma anche delle inerzie italiane, deriva dalla quasi certezza di vedere celebrato un processo in contumacia ad aguzzini che mai sconteranno un giorno di galera. La richiesta di «un cambio di passo» fatta pervenire agli egiziani dal nostro ministro degli Esteri getta sul dramma una luce grottesca, dato che da più di un anno il dittatore egiziano continua ad assicurare all’Italia una collaborazione che si traduce nel nulla, di sberleffo in sberleffo. Le famiglie dei diciotto pescatori hanno invece inscenato la scorsa settimana a Mazara del Vallo una manifestazione sotto la casa natale del ministro Bonafede e, esasperati dal rilascio-lampo di sette marinai turchi catturati dai libici in circostanze simili a quelle dei marittimi mazaresi, hanno gridato agli anziani genitori del ministro «dite a vostro figlio di intervenire». Il sindaco di Mazara, Salvatore Quinci, sostiene che Haftar tiene duro perché «vuole rimettersi al centro della scena, dimostrando di essere più forte dell’Italia». E purtroppo pare riuscirci.
Non è la prima volta che in giro per il mondo veniamo maltrattati, certo: dall’impunità dei piloti americani per la strage del Cermis fino alla prigionia indiana dei nostri marò. Ma è la prima volta che due affronti così gravi si consumano in rapida successione dentro quello che dovrebbe essere (ed era) il cortile di casa nostra, il Mediterraneo (gli arabi lo chiamavano al-Bahr al-Rumi, il mare dei romani), il Mare Nostrum. È come se si fosse compiuta una parabola: finita la stagione un po’ levantina con la quale la diplomazia della Prima Repubblica badava agli equilibri nel mondo arabo con occhio lungo sul Medio Oriente, finita persino l’illusione di grandeur berlusconiana con la sponda di Gheddafi e delle sue amazzoni. Dal 2011, l’avere assecondato l’attacco al rais libico senza dire una parola sul dopo ha sancito la nostra caduta. Gli ultimi tempi sono stati di grande incertezza geopolitica, basti pensare alle giravolte pro Putin o filocinesi della maggioranza gialloverde. Di certo il profilo di un ministro giovane, diciamo così, agli Esteri non ci aiuta. Secondo alcune fonti, Conte avrebbe chiesto proprio ad Al Sisi di mediare con Haftar. Per falso che sia, il solo fatto che se ne possa parlare quale ipotesi sul tappeto dice molto della debolezza del governo. L’unica presa di posizione udibile è venuta dal presidente della Camera, Fico.
Non un guerrafondaio ma un analista accorto come Lucio Caracciolo osservava tempo fa come la diplomazia, se non sorretta da una credibile deterrenza militare, finisca per essere distribuzione di mance e belle parole. Un pigolio. È tempo di ricostruire una difesa degna di questo nome. Non solo in termini di investimenti militari (abbiamo reso più moderna la nostra Marina, abbiamo corpi di élite nelle missioni in giro per il mondo, abbiamo il generale Graziano al comando del Comitato militare della Ue). In termini culturali e di consenso. Che Macron conferisca la legione d’onore ad Al Sisi, proprio mentre è in corso la crisi italo-egiziana, non è solo un altro sgarbo nel segno della realpolitik: è la prova che dobbiamo uscire dalla palude dell’incertezza politica (chi siamo? Con chi stiamo?) e diventare più pesanti al tavolo con gli alleati e i partner. Il rinnovo dei finanziamenti libici votato dal nostro Parlamento per tenere a bada i migranti non è grave (non solo) per le sue implicazioni umanitarie, ma perché significa delegare ancora, girarsi ancora dall’altra parte, non affrontare i problemi in prima persona, dimenticando come la nostra Marina sia efficace quando chiamata in causa con il sostegno del Paese, come fu al tempo dell’operazione Mare Nostrum.
La risposta all’irrilevanza sta, certamente, nella difesa comune europea. Evocata da Josep Borrell e da Macron medesimo, molto incoraggiata da Graziano stesso. E tuttavia proprio il caso di Al Sisi insignito dai francesi ci dice che, se nessuno si salva da solo, nessuno ti salva per te solo. Serve un contesto da far valere. Nessuno pretende incursori che prelevino gli assassini di Giulio portandoli in catene davanti a una corte italiana. Ma nessuno potrebbe biasimarci se, anziché vendere le nostre navi ad Al Sisi, le usassimo per una plateale e protratta esercitazione militare ai confini delle sue acque territoriali. Un gesto costoso, ma di simboli vive la politica. Un asse politico, economico e militare credibile che, sostenendo una diplomazia infine più efficace, riallinei l’Italia alle potenze occidentali, beh, sarebbe una bella scommessa per questi anni Venti: chiamando in causa non solo i portafogli ma le coscienze.

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