Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Se continua così, tra un po’ basterà fare un botto, urlare un bum, per spaventarci e colpirci. In fin dei conti questo è successo l’altra sera a Torino, migliaia di feriti per una suggestione collettiva e un colpevole tappeto di bottiglie rotte. Ma c’è voluto il terrorismo islamista, questo terrorismo fai-da-te al quale basta un’auto o un coltello per uccidere, per fare del nostro naturale sentimento di paura il più potente amplificatore dei loro attacchi. Eppure non bisogna farsi vincere dalla paura, diciamo come un mantra, ripetiamo come un esorcismo, ogni volta che ci aggrediscono nelle nostre, e spesso anche loro, città europee (una volta ogni quindici giorni, dal 22 marzo a oggi).
Ma siamo proprio sicuri? Sicuri che la migliore risposta sia organizzare un concerto come se nulla fosse, ricominciare da ciò che i terroristi hanno sanguinosamente interrotto, come ieri sera a Manchester con Ariana Grande, come al Bataclan un anno dopo la strage? E soprattutto: siamo sicuri che nel nostro stile di vita, che vogliamo difendere, non ci debba essere spazio anche per il coraggio, oltre che per la paura?
L’altra sera a Londra è successo qualcosa di imprevedibile: diversi episodi di autodifesa, avventori di bar e locali che scagliano sedie e bottiglie contro i tre terroristi armati, un tassista che tenta di investirne uno, un ristorante sushi che distribuisce coltelli ai suoi clienti. Non è l’eroico «let’s roll» del gruppo di passeggeri del volo 93, che la mattina dell’attacco alle Torri di New York si ribellarono al commando che aveva sequestrato il loro aereo e li fermarono, precipitando insieme con i terroristi. Ma è il segno di una reazione, di qualcosa che è scattato nella testa di chi rischiava.
Il segno che anche il coraggio, oltre alla paura, è un sentimento naturale dell’uomo quando è costretto a difendersi, e che anche il coraggio deve far parte del nostro stile di vita. «Run, hide, and tell», raccomanda Scotland Yard a chi si dovesse trovare in mezzo a un attacco come quello dell’altra notte a London Bridge. Giusto: la nostra civiltà ha delegato allo Stato il monopolio della violenza, e dallo Stato e dai suoi rappresentanti noi ci aspettiamo protezione e sicurezza. Ma non si può sempre fuggire, nascondersi e chiedere aiuto. Né metaforicamente, nella guerra alle centrali del terrore in Medio Oriente dalla quale non possiamo «ritirarci», né concretamente quando ti aggrediscono a casa tua.
Mantenere calma e sangue freddo, usarli per difendersi al meglio, sapere che tra i modi migliori per farlo c’è anche quello di mettere chi ci attacca in condizione di non nuocere, essere consapevoli che insieme siamo una moltitudine in grado di mettere in fuga un assassino, ma in fuga siamo una folla sbandata, un’onda che si abbatte su se stessa; sono tutti sentimenti che forse si fanno strada tra i cittadini delle metropoli più esposte al rischio, e che comunque fanno parte delle nostre opzioni ogni volta che ci chiediamo: ma se ci fossi stato io, lì in mezzo, che avrei potuto fare? Abbiamo diritto a difendere il nostro stile di vita, e lo faremo, non diremo mai a nostro figlio non andare al concerto perché è pericoloso. Ma forse potremmo imparare anche a dirgli, come fa chi vive da anni a Tel Aviv, se c’è un attentato non pensare che sei già morto, pensa che puoi difenderti, che puoi fare cose giuste e cose sbagliate.
Nelle prime immagini di questo ennesimo orrore, abbiamo visto la foto di un ragazzo inglese che scappava con un boccale di birra in mano. L’avrà fatto certamente per non rinunciare al nostro stile di vita (la birra ne fa parte integrante a Londra). Ma anche, ci piace pensare, per avere a portata di mano qualcosa con cui difendersi, «just in case».