23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Polito

Mentre i leghisti vanno avanti come treni, pragmatici e sornioni, i Cinquestelle arrancano, e finiscono con l’imitare Salvini nella speranza di contenerlo. I sondaggi registrano fedelmente questo disequilibrio nella coalizione, e spiegano perché la tensione sta esplodendo


Alla prima prova della verità, giallo e verde si rivelano incompatibili. La lite sul testo del condono fiscale, manipolato secondo Di Maio, approvato da tutti secondo Salvini, misura la distanza culturale e sociale tra due forze politiche che non hanno vinto insieme le elezioni, ma ognuna per conto suo, e poi si sono alleate per necessità. Sensibile come un sismografo, l’impennata record dello spread ha subito segnalato il sospetto che a Roma non ci sia più nessuno al volante. Mentre il premier Conte diceva a Bruxelles che la manovra con la più forte deviazione del deficit della storia «è molto bella e ben pensata», il vicepremier Di Maio annunciava dallo studio di Vespa che stava per recarsi dai carabinieri a denunciarla come un falso.
Vedremo se domani, nel vertice annunciato da Conte, il premier-avvocato troverà una formuletta che salvi capra e cavoli e con essi l’unità della coalizione. Ma in ogni caso sembra ormai chiaro che il problema, forse insolubile, sta nella natura del Movimento Cinquestelle e nella tensione che vi si è accumulata per quella che sui social già chiamano «la retromarcia su Roma».
Le ultime settimane sono state uno stillicidio di passi indietro: sulla Tap, che Di Battista aveva dichiarato morta «entro quindici giorni dalla formazione del nostro governo»; sull’Ilva, che volevano chiudere e fortunatamente riparte: sulla Gronda e forse anche sulla Tav, con i comitati no-Gronda e no-Tav in fibrillazione; magari anche su Genova, dove il governo, smentendo l’anatema, apre uno spiraglio ad Autostrade per la demolizione del ponte crollato; o a Ischia, con una sanatoria post-terremoto che può diventare un colpo di spugna per gli abusivi.
La spiegazione più semplice e ottimistica di questo arretrare è che anche un movimento come quello ex-grillino deve piegarsi al compromesso quando si trova davanti alla realtà del governo. Ma la reazione di Di Maio dell’altra sera, quando pur di dare un segnale di resistenza ha accettato il rischio di una brutta figura, rivelando che il condono era stato approvato a sua insaputa, dimostra che le cose sono più complicate.
Il fatto è che nel voto del 4 marzo si sono manifestate due convergenti ma diverse pulsioni, ben descritte dal Censis e da Giuseppe De Rita: la prima è quella del «rancore» (verso la casta e l’élite, ma anche verso chi guadagna di più o ne sa di più); la seconda è «l’esplosione di un bisogno collettivo e radicale di sicurezza»(verso i migranti e in difesa delle frontiere, ma anche contro l’Europa e il mercato). Queste due richieste si sono sommate, non fuse, nel governo giallo-trattino-verde. L’idea del contratto, forma privatistica di accordo tra le parti, è nata proprio dalla illusione che sia possibile una diarchia, uno comanda quando ci si occupa del «rancore» e l’altro della «sicurezza». Ma accade sempre più spesso che l’arte del governo si riveli incompatibile con questa pretesa. E così, mentre i leghisti vanno avanti come treni, pragmatici e sornioni, i Cinquestelle arrancano, e finiscono con l’imitare Salvini nella speranza di contenerlo. I sondaggi registrano fedelmente questo disequilibrio nella coalizione, e spiegano perché la tensione sta esplodendo.
Mentre infatti governare in nome della «sicurezza» è pericoloso ma possibile, lo fanno già molte altre destre in Europa, non si può invece governare in nome del «rancore». Non esiste infatti un fantomatico «cittadino» in nome del quale si possa deliberare senza danneggiare un altro cittadino. Siamo tutti cittadini, ma poi la società è fatta di gruppi e ceti sociali, di corporazioni e associazioni, e se rottami le cartelle colpisci i contribuenti che pagano, e se blocchi la Gronda uccidi il porto di Genova, e se complichi i contratti spingi gli imprenditori a non assumere.
La retromarcia su Roma dei Cinquestelle pare insomma smentire chi sostiene che alla tradizionale dialettica destra-sinistra si possa sostituire un nuovo bipolarismo tra popolo ed élite. Quando si aprono le contraddizioni in seno al popolo populista, come avviene in queste ore, viene anzi da pensare che anche dopo la Grande Recessione il conflitto sociale resti il motore della lotta politica, e che gli interessi dell’elettorato leghista del Nord, a partire dal condono fiscale, siano inconciliabili con gli interessi dell’elettorato stellato del Sud. E non basta dare un po’ uno e un po’ all’altro per evitare che confliggano.
I Cinquestelle, proprio per la loro natura di partito pigliatutto, sembrano arrivati al punto in cui non sanno scegliere se perdere l’anima o il governo. Vorrebbero essere puri e invece sono costretti a sporcarsi le mani. La Lega, che ha le mani in pasta fin da quando Berlusconi aveva i capelli, sa a chi si rivolge e che cosa vuole, e pensa solo a incassare. Se fallisse il tentativo di governo del M5S, forza politica non a caso senza uguali in Europa, allora si potrebbe concludere che il «partito della nazione» immaginato da Renzi non ha funzionato nemmeno nell’inedita forma grillina. Il punto è capire quanto può costare al Paese scoprirlo.

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