19 Settembre 2024
Voto

Le conseguenze e le prospettive dopo il voto europeo. È interesse sia di Fratelli d’Italia sia del Pd rilanciare il progetto dell’Unione su basi nuove

Nel dibattito televisivo post-europee circola la tesi, esposta da analisti e politici in genere orientati a sinistra, che in realtà non sia successo niente di così importante. Che il voto è stata una scelta «di stabilità»; che in fin dei conti nel Parlamento europeo non cambia quasi nulla; che c’è sempre, anche se sempre più risicata, la stessa maggioranza europeista a Strasburgo, composta da popolari, socialisti e liberali, e chi volesse entrarvi dovrà perciò prima bussare alla porta e accettare le regole della casa. È una tesi errata per due motivi. Il primo: sopravvaluta il ruolo del Parlamento nelle istituzioni dell’Unione, e sottovaluta quello del Consiglio europeo, dove sono i primi ministri a prendere le decisioni che contano e lo fanno sempre tenendo bene in mente i loro elettorati. Il secondo motivo è che questo affannarsi a sostenere che è tutto business as usual, pur se inteso come un argomento a favore dell’europeismo è in realtà il suo contrario. L’arena politica è diventata infatti ormai compiutamente paneuropea, ciò che succede nei singoli Paesi ha effetti su tutti gli altri. È perciò alquanto «nazionalistico» pensare che la rivoluzione politica in corso in Francia, dove potrebbero unirsi alle prossime elezioni gli eredi di De Gaulle e quelli di Vichy, o il terremoto annunciato in Germania, dove un movimento neo-nazista ha preso più voti del partito socialdemocratico più antico d’Europa, possano non influire sui destini dell’Unione.
Sono vent’anni ormai che commettiamo l’errore di sottovalutare le manifestazioni elettorali della «rabbia». Nel nostro tempo «il risentimento ha preso il posto della politica» (come nel titolo di un recente saggio di Carlo Invernizzi-Accetti).Ma con fare spesso snobistico abbiamo provato a esorcizzare prima il no francese nel referendum sulla Costituzione europea e poi il no inglese della Brexit, il movimento no global e quello no vax, i «gilet gialli» e il «vaffa-day». Dovremmo ormai invece aver compreso la lezione: l’elettorato si sta ribellando a un eccesso di regolazione, dirigismo e verticismo. E perciò imputa a Bruxelles il declino dell’Europa: è convinto che l’Unione sia il problema, anche quando in realtà potrebbe essere la soluzione.
È dunque giunto il momento per le élite europee di accettare questa realtà e di cominciare a distinguere tra politics e policies, termini che in inglese significano non a caso due cose diverse. Bisogna da un lato difendere la «politica dell’integrazione», che punta a quella «Unione sempre più stretta» di cui parlano i Trattati europei; perché è suicida credere di poter aver successo nel mondo di oggi rimpatriando le decisioni entro i confini nazionali e restando divisi in tanti piccoli staterelli, incapaci di fronteggiare da soli anche uno soltanto dei problemi globali che si scaricano ogni giorno nelle case degli europei, dalla guerra alla bolletta del gas, dall’inquinamento ambientale alla sicurezza alimentare. Ma non esiste una sola via all’integrazione europea. Devono perciò essere riviste le «politiche dell’Unione» che, nel tentativo di guidare le transizioni verde ed energetica, o in nome di una sorta di religione dei diritti, hanno contribuito in questi anni a provocare malcontento e rigetto nelle popolazioni.
Questa protesta ha di recente preso una strada nettamente di destra (dopo il tramonto dei populismi di sinistra, come quello dei Cinquestelle o di Podemos in Spagna). Perciò, fuor di metafora, le classi dirigenti europee interessate a non far morire il processo di integrazione devono oggi aprire la porta, senza chiedere genuflessioni preventive, a quelle componenti della destra che hanno già avuto modo di governare nei loro Paesi, conoscono la dimensione sovra-nazionale dei problemi e dunque anche i vantaggi della solidarietà tra Stati (pensiamo solo al fenomeno migratorio in Italia).
Abbiamo già scritto sul Corriere che i casi della storia hanno trasformato un ex brutto anatroccolo della destra sovranista come Giorgia Meloni in un potenziale cigno per l’Europa del futuro. La nostra premier è infatti l’unica nel Club dei Grandi ad aver vinto le elezioni europee. Ai vertici del Partito Popolare questa consapevolezza sembra diffusa, sia in Ursula von der Leyen sia in Manfred Weber. Ma Giorgia Meloni dovrà fare buon uso del suo successo: non solo strappando il massimo per l’Italia in termini di potere e poltrone a Bruxelles, ma anche facendo il massimo, nelle condizioni date, per tenere in carreggiata il bus europeo, nonostante il grave guasto del motore franco-tedesco. Il che vuol dire frenare la tentazione di inseguire le destre estreme, come quella francese o tedesca, e scommettere sulla politica invece che sulla rabbia. È del resto ciò che distingue chi governa da chi fa l’agitatore: un esercizio che Giorgia Meloni dovrebbe ormai conoscere bene, dopo due anni a Palazzo Chigi.
Le opposizioni in Italia dovrebbero favorire questo processo, non mettere veti. Vale soprattutto per il Pd, il gruppo oggi più forte tra i socialisti europei grazie al risultato di Schlein, e che dunque potrebbe esprimere la guida del Pse in ParlamentoOrmai la campagna elettorale è finita, e se non ci saranno sorprese è probabile che la prossima sia tra tre anni. È interesse di tutti rilanciare il progetto dell’Unione su basi nuove, e rinsaldare la centralità italiana in Europa.

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