20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Polito

Servono una maggioranza più solida e coesa, una squadra all’altezza e un respiro politico


La prima domanda è: perché così tardi? È dalla sera del 6 dicembre dello scorso anno, quando Conte portò in Consiglio dei ministri la prima bozza del Recovery plan, che la crisi era virtualmente aperta. Tutti sapevano che la maggioranza non condivideva né merito né metodo del più importante documento di governo del decennio, destinato a decidere che cosa potrà e vorrà essere l’Italia degli anni Venti. Ci fu chi dissentì platealmente, ovverosia Renzi, e chi più sotterraneamente, cioè Zingaretti e il Pd. La «cabina di regia», con sei super manager e trecento tecnici, sembrò loro quasi una beffa. Oggi non se ne parla più, ma ancora non sappiamo che cosa la sostituirà, chi e come gestirà duecento e passa miliardi di euro. Da allora è stato tutto un girarci intorno. Ieri, quasi due mesi dopo quella data, la crisi di governo riparte da lì: ricontrattare un accordo di maggioranza su emergenza e ricostruzione. Intanto non solo si è perso tempo, ma si sono anche esacerbati gli animi a furia di giochi di palazzo, campagne-acquisti in Parlamento, esibizioni di muscoli e testosterone. E tutti ora ci chiediamo: che cosa ne verrà fuori?
Le soluzioni possibili, in realtà, sono poche. La più probabile, o almeno quella sulla quale si è lavorato per convincere il premier a dimettersi, è un governo Conte ter con maggioranza di rinforzo: il rientro di Renzi sarebbe «pareggiato» da un gruppetto di «responsabili» di più o meno equivalente numero, si spera di arrivare a dodici apostoli del Centro, così da far vedere che il «rottamatore» non ha più la golden share. Conte diventerebbe in questo caso un vero e proprio Houdini della politica contemporanea, riuscendo a collezionare in poco più di metà legislatura tre diverse maggioranze per tre governi. Ma bisogna dire che un grande aiuto l’ha finora ricevuto dal centrodestra a guida Salvini/Meloni: proponendo come unica soluzione le elezioni anticipate, potrebbero infatti aver convinto il Parlamento che davvero non c’è alternativa a Conte, e che la minaccia velata del premier, dopo di me il diluvio elettorale, è credibile e temibile per tutti coloro che non vogliono andare a casa, sapendo che non torneranno mai (ce ne sono in abbondanza nei gruppi dei Cinquestelle). Lo stesso Berlusconi, condizionando il governo di unità al sì di Salvini/Meloni, l’ha di fatto escluso dal gioco. Se c’è un momento della nostra storia recente in cui l’abusata formula della «salvezza nazionale» avrebbe avuto un senso è proprio questo. Non sembra che il Parlamento ne sia all’altezza.
Se vi piace scommettere, dunque, i bookmakers danno favorito un Conte ter. Certo, per citare Trapattoni, bisognerebbe aggiungere: non dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Una crisi è una crisi, e anche Conte sa benissimo che dal cappello delle consultazioni può uscire un altro coniglio, soprattutto se non si chiude la partita subito, al primo giro. Ma, comunque finisca, agli italiani deve interessare soprattutto questo: che ne esca un governo migliore.
Migliore da tutti i punti di vista. Che abbia una maggioranza più solida e coesa del precedente, perché altrimenti sarà di nuovo il regno del rinvio. Che abbia una squadra migliore, composta cioè da ministri più indipendenti, più esperti, più all’altezza del compito immane che li attende. Che abbia un respiro politico, e sappia indicare alla legislatura un fine che non sia solo sopravvivere, traducendo l’impegno di Conte per una nuova legge elettorale in un quadro coerente di riforme, necessarie del resto per far funzionare correttamente la democrazia rappresentativa dopo il drastico taglio dei parlamentari.
Se avesse queste tre caratteristiche, il governo potrebbe contare su un maggiore consenso interno e su una accresciuta credibilità internazionale, e questa sarebbe un’assicurazione sulla vita più forte del voto di qualsiasi transfuga. La crisi si è aperta tardi e male. Ma mai sprecare una crisi. Pare che l’ultimo a dirlo sia stato Rahm Emanuel, il capo di gabinetto di Obama. Andrebbe ascoltato, anche se non è iscritto al gruppo dei senatori del Maie.

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