Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Scurati
Non è lecito abbandonarsi a torpide illusioni estive sulla fase 2 o sulla fase 3. Siamo in ginocchio. A settembre, quando la crisi sociale esploderà, apparirà chiaro a tutti, da Sud a Nord
Mi si permetta un caso personale (e un breve viaggio sentimentale nel nostro Paese). Sono nato a Napoli, sono cresciuto a Venezia e vivo da trent’anni a Milano. Mia madre è napoletana, dei vicoli antichi, splendidi e miserabili; mio padre è milanese, di Cusano Milanino, paese di Trapattoni e della grande periferia industriale. Il mio nonno paterno era un tornitore all’Alfa Romeo del Portello a Milano, quello materno un teatrante mancato, nato nel rione Sanità come Totò (di cui era amico). Ho frequentato le scuole superiori all’antico e glorioso Liceo Foscarini di Venezia, fondato per decreto di Napoleone nel 1807, l’università alla Statale di Milano e ho trascorso tutte le estati della mia vita a Ravello, un meraviglioso paese della Costiera Amalfitana dove Wagner trovò ispirazione per il suo Parsifal (e dopo di lui decine di altri grandi artisti e scrittori). Lo scorso anno, a pochi mesi di distanza, sono stato insignito della cittadinanza onoraria dal sindaco di Ravello e dell’Ambrogino d’oro da quello di Milano.
Che cosa significa tutto questo? Me lo chiedo consapevole del rischio che mi si risponda che sono egocentrico, vanitoso e privilegiato (tutte cose, del resto, un po’ vere). Ma corro il rischio e mi rispondo: significa semplicemente che sono italiano (sì, proprio come quello della canzone nazional- popolare). Il mio non è solo un caso personale, è un caso nazionale. Le biografie di milioni di altri italiani come me sono disseminate lungo la penisola, per scelta o per necessità, per storia o per cronaca, per studio, per amore o per lavoro. In ogni caso, per destino. Essere italiani significa portare un’individualità plurima, composita, eterogenea, ricchissima proprio perché frutto dell’incrocio di una moltitudine di identità culturali compresenti — talvolta divergenti — su di un medesimo territorio, concentrate una a ridosso dell’altra, spesso una contro l’altra, in uno spazio geografico meraviglioso e angusto.
Ebbene, ho trascorso l’intero lockdown a Milano, soffrendo, trepidando e sperando insieme ai miei concittadini (ne ho scritto su questo giornale) e confesso che una delle mie speranze è sempre stata quella di poter tornare a Sud la prossima estate. La mia speranza non si riduceva al desiderio di potersi godere un po’ di vacanza. Speravo — e spero — di poter tornare al mio amato meridione d’Italia, agli amici, ai parenti, ai luoghi dell’infanzia, di poter ritrovare, insomma, la metà di me stesso. Moltissimi settentrionali hanno nutrito e nutrono la mia stessa speranza.
Ieri, poi, ho visto in rete un filmato in cui Vincenzo De Luca, in visita a Villa Rufolo, definiva Ravello «il luogo più bello del mondo». Una vocina infantile dentro di me ha cominciato a piagnucolare: «Lasciami tornare a casa, Governatore». Per me Ravello non è solo il luogo più bello del mondo, è un luogo dell’anima, è il luogo del Ritorno. Quando l’adulto ha ripreso possesso della mia mente mi son detto che De Luca è un politico capace, intelligente e responsabile, che la maschera da lui indossata in questi mesi nasconde una strategia comunicativa molto efficace, messa in questo caso al servizio di una sacrosanta linea di rigore e di una precoce intuizione riguardo alla gravità dell’emergenza sanitaria che non tutti i suoi colleghi possono vantare. E’ giusto, mi sono detto, che il Governatore della Campania protegga la sua gente, anche a discapito delle mie vacanze. Infine, però, mi son chiesto: chi è la «sua gente»? Siamo lombardi, campani, veneti o siamo tutti italiani? Me lo sono chiesto con la stessa passione con cui mi ero indignato quando il vicesegretario federale della Lega, originario del varesotto, infuriatosi per uno scomposto attacco alla sanità lombarda, aveva replicato rispolverando una delle più minacciose e cupe espressioni del nazionalismo aggressivo: «Qui finisce male. Guai a chi scherza con i nostri morti!». Di chi sono i morti lombardi? Chi li deve piangere, ricordare, chi deve loro giustizia? I lombardi o tutti gli italiani?
Questo apologo personale, e questa sfilza di domande retoriche, spero possano servire a evidenziare una tra le più trascurate e temibili conseguenze di questo dramma collettivo, vale a dire l’effetto che avrà sull’unità nazionale. Credo di non sbagliare dicendo che in molte aree del paese non si è avuta l’esatta, commossa e partecipe percezione di quale tragedia epocale la pandemia abbia rappresentato per la Lombardia, credo di non esagerare dicendo che nei suoi momenti più drammatici la dialettica tra Stato e Regioni abbia rievocato il fantasma della disgregazione nazionale, temo — soprattutto — che questa commedia degli equivoci, sommata alla parziale abdicazione dello Stato nazionale in favore di interessi particolari e locali, possa lasciare dietro di sé una lunga scia di scorie tossiche.
I campani hanno il diritto di tutelarsi. Personalmente ho pregato affinché la pandemia non dilagasse nel meridione d’Italia. I lombardi, d’altra parte, catapultati sulla linea del fuco, al di là e nonostante alcuni gravi errori della loro classe dirigente, hanno dato prova di un’ammirevole disciplina, di una rara tenuta morale e civile. E questo posso testimoniarlo personalmente, insieme a milioni di altri miei concittadini.
Il Sud è sparito da decenni dall’agenda politica nazionale. Omissione gravissima. La pandemia, imponendoci di tornare a considerare i destini generali, ci ha rivelato che, in verità, a ben guardare, anche il Nord è silenziosamente scivolato fuori dall’orbita di un’autentica politica nazionale. Se ha senso scrivere un articolo solo per esprimere un auspicio, l’auspicio è questo: che l’Italia intera possa, passata la buriana, riscoprirsi comunità politica.
Non è lecito abbandonarsi a torpide illusioni estive sulla fase 2 o sulla fase 3. Siamo in ginocchio. A settembre, quando la crisi sociale esploderà, apparirà chiaro a tutti, da Sud a Nord. Se vogliamo scongiurare che il mese di settembre del 2020 si riduca all’unico giorno di un altro 8 settembre, dobbiamo capire che o ci risolleveremo tutti insieme o non si risolleverà nessuno.