18 Settembre 2024

Il grande riassetto previsto dalla riforma Caderoli e tutte le volte che in precedenza si è messo mano alla materia

Viene da lontano, attraverso i sussulti del nostro localismo, tra le insofferenze separatiste dei territori più ricchi e le recriminazioni revansciste di quelli più poveri. E si porta addosso una narrazione di diffidenza fra Nord e Sud, spesso infarcita di stereotipi. Ma non è mai stata così vicina a compiersi l’autonomia differenziata: il trasferimento dallo Stato alle Regioni di funzioni numerose e rilevanti, in attuazione dell’articolo 116 della nostra Costituzione, come da riforma del 2001.
Diciamolo subito: è una storia di straordinari paradossi. Il primo dei quali sta nello scarsissimo dibattito pubblico che accompagna un mutamento decisivo per il futuro degli italiani. La materia, certo, è ostica. Ma è di sicuro più impattante sulla generalità dei cittadini di quanto non siano talune, pur rilevanti, battaglie di bandiera che nel tempo hanno dominato il confronto politico e segnatamente l’agenda della sinistra.
Del resto, all’origine della catena dei paradossi si trova proprio la parte che guida adesso il fronte avverso al disegno di legge intessuto dal leghista Calderoli, approvato dal Consiglio dei ministri e ora in Parlamento dopo il vaglio formale del Quirinale. Era di centrosinistra la maggioranza che nel 2001, con l’illusione di sterilizzare le spinte federaliste del Nord incarnate dalla Lega, decise di riformare il titolo V della Costituzione, aprendo uno squarcio sistemico nei tradizionali rapporti fra Stato centrale ed enti periferici, foriero dell’impennata di spese e conflittualità che ci ha accompagnato fino ai giorni nostri (si prenda quale ultimo esempio il caos scoppiato tra Roma e le venti sanità «regionalizzate» in occasione della pandemia). Sempre di centrosinistra era il governo che, a firma Gentiloni, sottoscrisse il 28 febbraio 2018 le pre-intese con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, prime tre Regioni a sollecitare, ai sensi dell’articolo 116 già citato, un trasferimento di funzioni (Veneto e Lombardia chiedevano tutte e 23 le materie concorrenti disponibili). Val la pena di notare come sia nel 2001 che nel 2018 si era a ridosso di elezioni politiche e come nelle urne la scelta «tattica» non si rivelò proficua per il centrosinistra.
Restando ai paradossi, il «fronte del no» al disegno di legge Calderoli annovera adesso anche la decisa opposizione dei Cinque Stelle. Giuseppe Conte ha accusato la premier Meloni di avere «svenduto a Salvini l’Unità d’Italia». Dunque, sarà opportuno rammentare come, sempre nel 2018, il famoso «contratto» stipulato tra leghisti e pentastellati per dar vita al loro breve gabinetto gialloverde avesse in coda un punto davvero «prioritario», il numero 20: la realizzazione del regionalismo a geometria variabile. In capo a un anno i Cinque Stelle compresero ciò che avevano davvero firmato e iniziarono a menare il can per l’aia, avendo una constituency molto meridionale. Assai più che i mojito al Papeete appare questo un plausibile motivo di crisi per quell’esecutivo, caduto nell’estate del 2019.
Intendiamoci: il grande riassetto dei poteri immaginato dagli strateghi leghisti sottende aspettative e ragioni non banali e in apparenza neppure tutte «nordiste». Uno storico di area dem come Emanuele Felice, nel suo saggio sul «Perché il Sud è rimasto indietro», indica come causa principale del divario le classi dirigenti meridionali, eredi del vecchio notabilato disposto a cambiar tutto per non cambiar nulla. L’attesa che «il Sud si svegli», per dirla con la Lega, è, quindi, più che legittima. Il paradosso è che quella classe dirigente parassitaria e gattopardesca è stata resuscitata proprio dal regionalismo: il divario Nord-Sud si restrinse nell’Italia repubblicana fino all’attivazione delle Regioni, dopo di che ricominciò ad allargarsi. Perciò non si può escludere che col disegno di legge appena varato, e dal quale è già scaturito un effetto emulazione in altre Regioni, stiamo correndo esattamente verso la causa dei nostri mali.
Ma, di paradosso in paradosso, arrivando all’oggi, la riforma Calderoli potrebbe fare esplodere la competizione nel centrodestra ben oltre le previsioni dei suoi primattori. Si tratta infatti di una riforma «a due tempi», come spiega bene Adriano Giannola, presidente di Svimez. Delle 23 materie in ballo, quelle che attengono a diritti civili e sociali da assicurare da Bolzano a Ragusa (come sanità, istruzione o trasporto pubblico locale) sono legate ai Lep (ciò che in sanità sono i Lea), i livelli essenziali di prestazione, o assistenza, difficili da stabilire: si può andare per le lunghe, insomma, fra esperti e commissioni, fino a eventuali Dpcm della presidenza del Consiglio che li dovrebbe determinare in capo a un anno in mancanza d’accordo. Visto il tema, è proprio sui Lep che s’è acceso quel po’ di dibattito tra partiti: ma si tratta d’un errore di prospettiva. Perché le altre materie, chiamiamole non-Lep, sono invece attribuibili senza indugi (ai sensi dell’articolo 4, comma 2, del disegno di legge), secondo le intese tra Stato e Regioni: e sono «la vera polpa del piatto», spiega Giannola. Infrastrutture, aeroporti, porti, zone speciali, ferrovie, protezione civile, energia: un pacchetto economico su cui le altre Regioni, presumibilmente del Nord, le più forti e le più omogenee politicamente, potrebbero confluire in piena legittimità; il comma 8 dell’articolo 117 della Costituzione riformata nel 2001 prevede infatti che le Regioni possano trovare intese tra loro anche per costituire «organi comuni».
È il Grande Nord inseguito per una vita da Bossi e realizzato da Calderoli con altri mezzi? Chissà. Di sicuro questa specie di Stato sostanziale dentro lo Stato formale, o di novella Macroregione, conterrebbe la maggioranza della nostra popolazione e la fetta largamente più rilevante del nostro Pil. Il presidenzialismo vagheggiato da Giorgia Meloni dovrebbe bilanciare, si suppone, in senso unitario un così forte spostamento nel potere economico (e dunque in quello politico reale) del Paese. Ma dovrà seguire, a differenza della riforma Calderoli che s’appoggia su norme costituzionali già esistenti, il lungo percorso di una nuova riforma costituzionale. Difficile dire, ove arrivasse al traguardo, cosa troverebbe ancora in piedi nella capitale di un’Italia, per allora, piuttosto ristretta.

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