Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Valentino
Come diceva Robert Musil, «Seinesgleichen geschieht», le cose dello stesso tipo ritornano. Una sorta di «guerra di religione» torna ad attraversare l’Europa, in particolare a dividere i due maggiori Paesi. All’ultimo vertice europeo, Emmanuel Macron ha bloccato l’apertura dei negoziati per l’ingresso di Albania e Nord-Macedonia nella Ue. «Ci vuole più integrazione e più coerenza», ha spiegato il presidente francese, secondo il quale se già oggi ci sono evidenti problemi di funzionamento a 27, «come possiamo pensare che andrà meglio a 28,29, 30 o 32?». Per Angela Merkel, al contrario, «sarebbe interesse dell’Europa legare anche questi Paesi all’Unione». Quello tra Macron e Merkel è un dilemma antico e ben conosciuto. Spuntò con forza dalle macerie del Muro di Berlino e dalla fine della Guerra Fredda, quando gli ex Paesi dell’area sovietica rivendicarono la loro appartenenza alla costruzione europea. Bisogna accoglierli al più presto, in nome di un risarcimento troppo a lungo dovuto, dissero i fautori dell’ampliamento. Bisogna prima integrare di più, anche politicamente, ciò che esiste, risposero i sostenitori dell’approfondimento. Prevalsero i primi. Mentre la maggiore integrazione non andò oltre il mercato e una moneta unica monca di ancoraggi economici e politici.
Quasi tre decenni dopo siamo ancora appesi a quel rovello, ma con alle spalle la lezione di questi anni. Macron insiste sulla necessità di integrare preventivamente almeno un’avanguardia, quella dell’eurozona. Problema in verità da affrontare comunque, con o senza ampliamenti nei Balcani. La posizione tedesca è un’altra: più ampia l’Unione, meno Berlino spera di cedere sul fronte dell’integrazione politico-economica. In mezzo ci sono due Paesi, ma non solo loro, che hanno fatto passi notevoli per presentarsi al tavolo europeo. Uno di loro ha addirittura cambiato nome, da Macedonia a Nord-Macedonia, Grecia oblige. Possiamo negar loro il diritto almeno di trattare?