Un dibattito pubblico, non ideologico sulla complessa realtà dell’atomo, non è più rinviabile
Ritorno al nucleare? In Italia suona un po’ come «Ritorno al futuro», inteso come il film degli anni Ottanta con Michael J. Fox. Quasi che nessuno ci creda sul serio. Eppure i piccoli ma inesorabili passi avanti fatti in questa direzione, come il decreto legge sulle bollette che nei fatti riattiva l’iter per le centrali nucleari civili spente in Italia dal 1987, ci dovrebbero convincere a riaccettare il dibattito, prima che si proceda lo stesso ma con un non-dibattito.
La fissione non si fa solo con i decreti e con le competenze scientifiche che pure abbiamo, ma anche con una sorta di pax condivisa sulla sua complessità culturale. Partendo magari questa volta dal cuore, scienza e tecnologia, ma senza per questo poter eludere il cervello, la politica: perché se è vero che non possiamo continuare a sbandierare il fantasma di Chernobyl da cui era dipeso l’esito del referendum in Italia (la tecnologia ora è enormemente più affidabile), è altrettanto vero che nessun governo in Italia è riuscito ad affrontare in maniera convincente l’annosa questione della gestione dei rifiuti radioattivi.
I nodi da sciogliere, inutile negarlo, sono molti. Come dice il governo Meloni dobbiamo affidarci agli esperti. Solo che su questo tema gli esperti non sono concordi: sulle tempistiche, sulle alternative, sui costi sociali. Come abbiamo imparato durante la pandemia «scientifico» non è sinonimo di «certo». Semmai è l’accettazione dell’incertezza per spingere la conoscenza un passo più in là. In altre parole l’uso di termini come «sicuro» e «nuova generazione» o «piccoli reattori modulari», una tecnologia promettente ma ancora sperimentale, non possono chiudere il dibattito. Semmai lo aprono.
Allo stesso tempo in un confronto non ideologico non va sottovalutato che scienziati della statura di Enrico Fermi e ancor di più Edoardo Amaldi hanno supportato l’idea di un uso pacifico della rottura dell’atomo, sfruttandone l’energia. Oggi abbiamo dimenticato quanto proprio noi italiani siamo i padri naturali di questa idea. E non può essere nemmeno dimenticato che l’Europa stessa è diventata di fatto un continente pro-nucleare cambiando la nomenclatura e portando l’energia atomica nella cassetta degli attrezzi per combattere il nemico pubblico numero uno, la CO2.
La Francia che dopo Fukushima aveva tentennato è ormai tornata decisamente a seguire questa strada. La Germania con Merz sembra voler rompere il tabù del ritorno atomico. L’Italia deve decidere che strategia darsi nel breve, nel medio e nel lungo periodo. Perché l’accelerazione non riguarda solo il nucleare da fissione, ma anche le fonti alternative, il cui costo sta diventando sempre più competitivo. Ha senso ora iniziare un percorso che richiederebbe almeno un decennio per la prima centrale? E tra dieci anni quale sarà l’offerta alternativa? Dove saremo con la fusione atomica che, nonostante l’aggettivo, è una tecnologia del tutto diversa, in fase ancora di laboratorio, ma sicura?
Le tecnologie potrebbero far diventare l’energia una commodity, una prospettiva che avrebbe un impatto enorme sugli equilibri geopolitici basati spesso sulle forniture energetiche (si pensi agli inizi della guerra russa in Ucraina, ma anche all’Opec). Con questa legge il dado atomico è tratto. Il primo passaggio non a caso è quello di istituire un’Authority, perché a studiare le leggi in punta di penna da legulei il nucleare in Italia non è vietato. È solo praticamente impossibile. Per questo la definizione di un’autorità va vista in realtà come il primo pezzetto lego di un lungo iter del governo: evitare, per quanto possibile, un nuovo referendum su cui scivolò anche Silvio Berlusconi.