19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Mauro Magatti

La sfida per gli schieramenti è trasformare il successo in proposte adeguate alla domanda della società Pena veder sfumare rapidamente il consenso ottenuto

Era il 1964 quando Bob Dylan lanciava The Times They Are A-Changin’, canzone che diventerà la bandiera del 68. Dopo più di 50 anni, in un mondo completamente diverso, le note del cantautore americano possono ancora fare da colonna sonora del tempo che viviamo. Per molti osservatori il dopo elezioni ci consegna un mondo popolato da marziani. Quasi che sia inimmaginabile pensare di andare avanti senza le certezze che ci hanno accompagnato negli ultimi anni. Non che non ci siano ragioni di preoccupazione. Ma non è accaduto sempre così nella storia, tutte le volte in cui le élite, prigioniere dei loro schemi mentali, sono state incapaci di cogliere l’urgenza del cambiamento?
È importante leggere i recenti risultati elettorali in rapporto a quello che sta avvenendo in altri Paesi. Il caso italiano è infatti solo l’ultimo di una serie: nelle democrazie contemporanee sembra che per vincere le elezioni sia necessario stare alla larga dai partiti e fondarne di nuovi. È stato così per Trump negli Usa — diventato presidente a dispetto di tutto l’establishment repubblicano — per Macron in Francia — dove En Marche ha travolto tutti i partiti tradizionali — per Tsipras in Grecia — che ha portato al governo Syriza, nata nel 2012. Ci sono diversi insegnamenti che si possono trarre da questa osservazione.
In primo luogo, i nuovi partiti sono un sintomo della discontinuità storica che stiamo attraversando. Con la crisi del 2008 siamo entrati in una fase con dinamiche sociali e economiche differenti rispetto alla stagione precedente. Chi ha registrato prima e più distintamente tale cambiamento è l’uomo della strada, che vive con meno protezioni di quante ne abbiano le élite. Da qui nascono le nuove domande a cui le vecchie ricette non sanno dare risposta. Lo spostamento del voto dice di una opinione pubblica alla ricerca di soluzioni che non trova. In secondo luogo, vale per i partiti quello che vale per gli altri soggetti sociali. In un mondo che cambia rapidamente, in cui i processi sono molto veloci, gli equilibri che si riescono a costruire sono strutturalmente instabili. E facilmente reversibili. L’adattamento al nuovo è una sfida per qualsiasi organizzazione. Dopo la dissoluzione dei partiti ideologici negli anni 80, abbiamo avuto i partiti pigliatutto, divenuti poi semplici partiti personali. Ma oggi anche questa soluzione non basta più: probabilmente perché i partiti tendono a incrostarsi rapidamente e a finire vittime di lotte intestine che alimentano lo stigma negativo verso tutto ciò che è associato alla politica istituzionale.
In terzo luogo, persi i radicamenti territoriali (le mitiche «sezioni»), la struttura dei partiti oggi è fatta quasi esclusivamente dalla rete degli amministratori locali. Tenuti insieme da qualche evento identitario, dall’eco mediatico e dalla discussione in rete. In questo modo i partiti diventano estremamente liquidi e soprattutto esposti a improvvisi rovesci. Così che una sconfitta elettorale può determinare crolli repentini. Tutto ciò non deve però portare alla conclusione che la politica contemporanea si muova convulsamente, al di fuori di qualsiasi logica.
In tutto il mondo occidentale, il cambiamento dei partiti si accompagna al riallineamento degli assi politici destra/sinistra e, più in profondità, al ripensamento degli assetti istituzionali. Da un lato c’è l’istanza sovranista. Che cosa esattamente significhi tale ispirazione non è però ancora chiaro. Dietro ci sono temi cruciali come il territorio (che può andare dal locale al continentale) e la sovranità (cioè il potere di decisione più o meno autocratico). Dall’altro c’è la richiesta della società civile ed economica di liberarsi dal giogo di burocrazie ed élite opprimenti, alla ricerca di un nuove forme di rappresentanza e di partecipazione (coagulate attorno al mito della rete).
Ed è qui che torniamo al caso italiano. Può essere che le elezioni del 2018 segnino la nascita di un nuovo bipolarismo. Ma non sappiamo ancora né quali forme partitiche e quali protagonisti politici prevarranno, nè come saranno esattamente posizionati. È questa la posta in gioco delle prossime settimane. Tanto per la Lega quanto per il M5S la sfida è riuscire a trasformare la vittoria elettorale in un’offerta capace di rispondere alla domanda che sale dalla società. Pena veder sfumare rapidissimamente il consenso ottenuto. La prima ha il vantaggio di poter guardare a modelli stranieri, ma deve decidere dove intende posizionarsi: tra Orbán, May e Puigdemont — tanto per citare tre diverse traduzioni della stessa ispirazione — c’è una bella differenza.
Per il M5S, si tratta di muoversi su un terreno inesplorato: ora che i pentastellati hanno il pallino in mano devono capire dove vogliono andare. La sfida è diventare la matrice generativa di una nuova offerta competitiva alla proposta della destra. Da soli o con altri. Non c’è furbizia tattica che possa schermare queste due giovani forze politiche dalla responsabilità a cui sono chiamate. I protagonisti possono essere nuovi. Le questioni antiche.

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