Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Nel discorso di ieri alle Camere, Giuseppe Conte ha sepolto la politica e le alleanze del suo alter ego al vertice di un esecutivo giallo-verde per quattordici mesi
La metamorfosi è compiuta. Nel discorso di ieri alle Camere, Giuseppe Conte ha sepolto la politica e le alleanze del suo alter ego al vertice di un esecutivo giallo-verde per quattordici mesi. Non ha cambiato solo maggioranza, ma toni e punti di riferimento. I due elementi di discontinuità sono il ritorno convinto all’ortodossia euroatlantica e l’impegno a riformare la legge elettorale. Si tratta dei perni intorno ai quali il governo tra M5S e Pd intende muoversi: per puntellarsi a livello internazionale e per difendersi da una destra forte nei sondaggi e decisa a evocare «mille piazze» contro la nuova coalizione. Il terzo elemento, l’appello alla sobrietà verbale, dovrebbe essere la premessa per rendere verosimili gli obiettivi quasi enciclopedici indicati al Parlamento. La Lega di Salvini e i FdI di Meloni scommettono su un collasso dell’esecutivo entro primavera; e dunque sul voto anticipato che Salvini ha maldestramente inseguito con la crisi, l’8 agosto. Delineano un’opposizione «di popolo» contrapposta al «Palazzo»: vecchio schema demagogico caro anche al M5S, e riesumato per l’occasione, che permette di coprire le responsabilità di un leader leghista vero regista involontario della formazione del governo «giallorosso».
Ma Salvini dovrebbe chiedersi come mai il capo di Forza Italia, Silvio Berlusconi, appaia altrettanto duro ma cauto sui metodi da usare contro quelli che bolla come «i due partiti comunisti»: Pd e M5S. Nella «strategia della piazza» portata in modo concitato e un po’ surreale dentro il Parlamento si avverte una sottile disperazione, destinata a crescere se Conte riuscirà a governare e arginare gli istinti suicidi degli alleati: operazione non facile, è vero, viste alcune uscite di esponenti del Pd e del neoministro degli Esteri, Luigi Di Maio. La sua espressione da sfinge di ieri alla Camera, durante il discorso sulla fiducia di Conte, insinuava il dubbio che Di Maio fatichi a accettare la nuova fase e la perdita della carica di vicepremier. Conte conferma invece di guardare all’intera legislatura, dopo essere succeduto a se stesso con apparente sangue freddo e stilettate verso l’ex alleato della Lega.
Eppure, solo la capacità di governare e non di galleggiare può rendere verosimile il traguardo del 2022, anno di elezione del nuovo capo dello Stato. Significa non offrire pretesti sulla politica migratoria, contando solo su una maggiore disponibilità dell’Europa. E riuscire a controllare le dinamiche centrifughe in atto nel Pd e in un M5S nel quale la leadership contrastata di Di Maio potrebbe rivelarsi un fattore di instabilità. L’identità irrisolta di ministro e «capo politico» promette di scontrarsi con la volontà di Conte di essere un premier senza vincoli di partito o di Movimento. Il governo nasce sovrastato dall’ombra del trasformismo, e osservato con diffidenza da un’opinione pubblica preoccupata dalla lunga crisi economica; e incattivita da una propaganda che ha dirottato paure e ansie soprattutto contro l’immigrazione incontrollata. E poco importa se la questione è stata pompata artificiosamente dalle opposizioni.
Conta la percezione che se ne ha. Dunque, per il governo vittoria o sconfitta si misureranno sulla capacità di combattere la narrativa dell’«invasione»; e di dimostrare che il fenomeno può essere governato senza far regredire i diritti umani. Ma anche la strategia più efficace, appoggiata dalla Commissione europea con una redistribuzione automatica dei migranti in altri Paesi, non funzionerà senza un atteggiamento diverso dei soci del nuovo governo. M5S e Pd non possono convivere replicando comportamenti del passato. E non solo nei rapporti tra di loro. Per i grillini, accontentarsi di avere evitato il voto anticipato vorrebbe dire confermare di non credere più alla propria saga palingenetica; e di avere scelto di rimandare la resa dei conti con un ridimensionamento già in corso.
Quanto al Pd, l’idea di essere tornati al potere senza chiedersi i motivi della rottura con pezzi di elettorato, lo condannerebbe a un’identificazione devastante col «sistema» bocciato alle Politiche del 2018. Per Conte, la vera sfida sarà dunque con la propria maggioranza anomala e con la capacità di far ripartire l’economia italiana. Per paradosso, un’opposizione agguerrita dovrebbe aiutare a evitare errori marchiani e a compattarsi su questioni dirimenti. La riforma elettorale sarà una di queste. Si parla di ritorno al sistema proporzionale per scongiurare un trionfo della destra leghista, da parte di un governo raffigurato come sbilanciato a sinistra. Attenzione, però: rimodellare il sistema «contro» qualcuno è sempre un rischio. Basta pensare ai precedenti, fino al 2018, quando fu approvata una pessima legge per fermare il M5S. Si è visto com’è finita.