21 Novembre 2024

Crisi demografica (e culturale): è necessaria una definizione di anziano che sia al passo coi tempi e non venga rigidamente ancorata all’età anagrafica.

Quale ormai noto «catastrofista delle culle vuote» mi sento indirettamente chiamato in causa tutte le volte in cui autorevoli esperti mettono in luce i problemi dell’invecchiamento demografico, enfatizzandone gli aspetti sanitari e previdenziali, ma soprattutto sottolineando come essi siano alle porte, se non già entrati a pieno titolo a minare gli equilibri socio-economici del sistema Paese. Dico subito che trovo tutto ciò pienamente condivisibile. Mi ricorda dati e scenari che spesso ci si rimpallava tra demografi negli anni ’80 del secolo scorso, con un seguito decisamente modesto – talvolta persino con orientamento contrario – da parte di chi già da allora avrebbe dovuto attuare le conseguenti scelte e gli appropriati programmi.
Pur condividendo pienamente l’affermazione secondo cui l’Italia ha ormai raggiunto una innegabile posizione di vertice nel panorama mondiale dell’invecchiamento, penso tuttavia che se vogliamo misurarne correttamente la progressione e valutarne le future prospettive sarebbe indispensabile poter contare su una definizione di anziano che sia al passo coi tempi e non venga rigidamente ancorata all’età anagrafica. Mentre cinquant’anni fa un uomo entrava a far parte del popolo degli «anziani» (in senso statistico) a 65 anni, avendo ancora davanti a sé – ai livelli di sopravvivenza attesi di allora (1971) – il 17% della propria vita, ai livelli di oggi gliene resterebbe ancora il 22,5% e si ritiene che tale quota possa ulteriormente accrescersi in futuro (per il 2062 la stima è del 25,9%). Se dunque etichettassimo l’anziano non più adottando un confine anagrafico fisso basato sui suoi anni vissuti, vale a dire: «sono anziane le persone con più di … anni», bensì facessimo riferimento all’età-soglia che demarca il passaggio sotto una prefissata quota di anni da vivere, ossia : «gli anziani sono coloro che hanno davanti a sé non più del…% della loro esistenza (passata e attesa in futuro)», avremmo un quadro più realistico del fenomeno dell’invecchiamento demografico e della dimensione quantitativa delle componenti che ne determinano la dinamica.
In proposito va tenuto presente che la crescita del numero di anziani – indipendentemente da come ci piaccia definirli – non è che uno dei due fattori responsabili dell’invecchiamento demografico e delle problematiche che ne derivano. L’altro è rappresentato dalla parallela decrescita delle altre due componenti della popolazione: i giovani e gli adulti. In particolare è a questi ultimi, usualmente identificati come popolazione in età attiva, che viene delegato il compito di fornire le risorse per garantire i futuri equilibri di welfare e rispetto a cui si tende a rimarcare, non senza preoccupazione, che «mancheranno sempre più lavoratori nei prossimi decenni» aggiungendo spesso un «già da ora».
Ma cosa è che tradizionalmente – senza nulla togliere alla funzionalità di contributi migratori se adeguatamente governati – alimenta i flussi di ingresso nella popolazione attiva e quindi nella forza lavoro? Non sono altro che le nascite generate negli anni precedenti. Per questo il catastrofismo delle culle vuote si giustifica col metterci di fronte al loro effetto sugli scenari di calo della forza lavoro che vanno prefigurandosi; si tratta di un modo per ricordarci che «la demografia si vendica di chi la dimentica» poiché, come da sempre accade, è oggi che nascono gli adulti (lavoratori/contribuenti che dir si voglia) di domani.
Se dunque si insiste nel mettere in luce le tendenze preoccupanti connesse al fenomeno delle culle vuote – osserviamo per inciso che anche il 2023 è partito male con un ulteriore calo di nascite nella prima metà dell’anno pari al 1,9% – è solo perché, da un lato, si ritiene di dover dare il giusto rilievo a uno dei più importanti fattori che rendono (e renderanno) critici gli equilibri di welfare, dall’altro si vorrebbe favorire, anche attraverso la consapevolezza delle tendenze e dei problemi, un salto culturale che per decenni è stato contrastato, o almeno reso difficile: riconoscere che ogni nascita non è solo un fatto privato di chi vive la genitorialità, ma è anche un evento di rilevanza e interesse collettivo. Un evento che, in una visione di bene comune, andrebbe collocato nella prospettiva di avere un paio di braccia in più affinché, quando sarà giunto il momento, possano aiutarci a remare più forte per andare avanti; augurandoci di aver dato loro anche un’efficace formazione perché lo sappiano fare, corredata da valide argomentazioni perché capiscano di doverlo fare.

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