20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Gian Antonio Stella

È indispensabile l’avvio in tempi brevissimi di tutte le procedure. E una scelta netta e radicale: massima nitidezza


«Expo 2015: Vince Milano!», titolarono i giornali il 31 marzo 2008. All’apertura fissata per il 1° maggio 2015 mancavano esattamente sette anni e un mese. Poco meno degli otto sufficienti all’Italia riemersa dalle macerie della guerra per costruire, con le tecnologie di allora, l’intera Autostrada del Sole: 759 chilometri da Milano a Napoli con 38 gallerie e 853 ponti e viadotti. Eppure ci ritrovammo, alla vigilia dell’apertura della Esposizione internazionale, spompati e col fiato corto. Con buona parte dei cantieri ancora da rifinire, operai col caschetto che correvano su e giù come formichine e perfino Roberto Maroni, il governatore della Lombardia (la Lombardia: mica le solite regioni bollate come carrozzoni), che metteva trafelato le mani avanti: «Non ho la garanzia che il nostro padiglione sia pronto per il 1° maggio». E mentre tutti ci guardavano un po’ così saltò fuori addirittura che, a dispetto dei sistemi di sicurezza «blindati», c’era un varco abusivo da cui entravano e uscivano carpentieri, fabbri, muratori e sconosciuti senza il minimo controllo. Da brividi. Mai più. L’ha già detto Giuseppe Sala, che visse da Commissario quella forsennata rimonta sui ritardi tirandosi addosso molti elogi ma anche una quota di grane burocratiche e giudiziarie per certe «scorciatoie» imposte dai tempi. Vale però la pena, dopo le ciucche trionfalistiche di questi due giorni, di ripeterlo: mai più.
Perché la cronaca ci ricorda impietosa quanto successe, con quella Expo che pure offrì all’Italia, a caro prezzo, una lusinghiera ribalta internazionale. Dal giorno dell’investitura ci vollero otto mesi per partorire l’«Expo 2015 Spa», lo strumento necessario a partire. Ci vollero mesi e mesi di baruffe interminabili per stabilire «come», «dove» e soprattutto «chi». Ci vollero tre anni perché il Consiglio comunale di Milano approvasse la delibera che dava l’ok all’acquisto dei terreni, peraltro sotto l’ombra di pesanti conflitti di interesse. Ci vollero decine di inchieste giornalistiche sui ritardi perché finalmente, ormai con l’acqua alla gola, il governo di Enrico Letta desse a Sala, già amministratore delegato, i poteri di commissario unico. Era il 6 maggio 2013. Dei sette anni a disposizione cinque erano volati via, come foglie nel vento. Con un contorno di sospetti, denunce, arresti, aumenti (il primo appalto subì subito un ribasso del 42,8% seguito presto dalla richiesta di un sacco di denaro per «extra-costi») per non dire delle infiltrazioni, coi subappalti, di imprese torbide a volte collegate alla mafia…
Mai più. Per legittimare la vittoria nel ballottaggio con la Svezia (terza nelle classifiche Transparency dei Paesi meno corrotti del pianeta, 50 posti davanti a noi) e meritarci davvero le urla di esultanza di questi giorni, l’Italia è obbligata cambiare radicalmente il suo approccio storico con quelle che Gianni De Michelis invocò come le «date catenaccio». Ricordate? «Punto primo: sappiamo che in questo Paese ci sono delle cose da fare. Punto secondo: sappiamo che è un Paese paralizzato dalla burocrazia, dai veti incrociati, dalla cultura del rinvio. Punto terzo: sappiamo che occorre uscire da questa paralisi. Dunque è necessaria una data catenaccio. Che ci costringa a fare le cose nei tempi stabiliti».
La storia, purtroppo, si incaricò di dargli torto. Non solo non c’è stata scadenza che sia stata rispettata sul serio (il record è del treno navetta tra Punta Raisi e Palermo: doveva servire per le «Notti Magiche» del ’90, fu finito nel 2001 dopo i mondiali in Italia, negli Usa e in Francia…) ma ogni volta tutti i preventivi sono stati scardinati da incrementi stratosferici. Dovuti in larga parte allo stesso andazzo: prima va «conquistato» uno dei Grandi Eventi con altissima visibilità, poi sono buttati settimane e mesi e anni in un tormentone di rinvii (indimenticabili i «Mondiali Militari di Atletica» svoltisi a Catania in un freddo dicembre del 2003 perché «a settembre non ce l’avevamo fatta»), quindi viene lanciato all’ultimo istante l’allarme apocalittico: «Oddio! Non ce la faremo mai!» E come finisce? Con una dichiarazione di emergenza, un commissariamento, una deroga alle regole negli appalti, un rush finale dove c’è troppo poco tempo per controllare se un’impresa ha dei brutti precedenti o peggio appartiene a un prestanome della ’ndrangheta o della camorra.
Non è solo l’Italia, si capisce, a sbagliare i conti. Già nel 2016 uno studio della Saïd Business School e della Oxford University riassumeva in una tabella micidiale gli errori di calcolo compiuti su alcuni Grandi Eventi. Dove spiccavano i casi dei costi per l’ Olimpiade invernali a Lillehammer nel ’94 (più 277%) o a Lake Placid nel 1980 (+321%) o per quelle estive ad Atlanta nel ‘96 (+147%), a Barcellona nel ’92 (più 417%) fino a quello strabiliante di Montreal nel ’76: +796%. Numeri davanti ai quali pareva accettabile l’82% di rincari rispetto al previsto per le «invernali» di Torino nel 2006. Noi però, diciamocelo, siamo più esposti. Insomma, il rischio c’è. E non basta invocare qua o là buoni precedenti amministrativi (quelli pessimi, si sa, sono sempre colpa di predecessori di altre bande) per rassicurare i cittadini italiani che troppe volte hanno assistito sgomenti a casi in cui, per trarsi d’impaccio, lo Stato ha fornito direttamente ai furbi gli strumenti e i trucchi per aggirare le regole dello Stato stesso. Basta. Se c’è un’emergenza che dobbiamo affrontare una volta per tutte è il rifiuto della cultura dell’emergenza. A volte strumentale, si è visto, per aggirare le buone pratiche.
Una sola risposta è possibile dare, a quanti non si fidano troppo: l’avvio in tempi brevissimi di tutte le procedure, come se le Olimpiadi invernali a Milano e a Cortina non ci fossero fra sette anni ma domani. Il tutto accompagnato, prima ancora che si levi l’ennesimo appello preoccupato di Raffaele Cantone, da una scelta netta e radicale: massima trasparenza. Sui nomi, sugli appalti, su tutto. Giuseppe Sala e Luca Zaia si dicono pronti. Bene. Vedremo. Scriveva anni fa Luciano De Crescenzo nel suo libro «Il Pressappoco» che come la primavera è il pressappoco dell’estate e Bergamo è il pressappoco di Milano, l’Italia è «il pressappoco dell’Occidente». Dio non voglia che anche questa ennesima occasione, che potrebbe segnare una svolta, non finisca per esser «pressappoco virtuosa».

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