Fonte: Corriere della Sera
di Msssimo Franco
L’accordo ha tutelato gli oltre 7 mila dipendenti. Ora si dovrà capire se si tratta di un’eccezione oppure è un’altra tappa in un domino dirigista
La domanda fastidiosa ma ineludibile è se abbia vinto lo Stato o lo statalismo. Le reazioni trionfali dei grillini velano l’insoddisfazione per la percentuale residua di azioni destinata a rimanere nelle mani della famiglia Benetton; e per la mancata revoca delle concessioni, sulla quale puntavano nonostante i risarcimenti da record da pagare per la violazione delle norme contrattuali. Il premier Giuseppe Conte ha replicato sostenendo di voler guardare alla sostanza, e liquidando il resto come «slogan»: messaggio indirizzato soprattutto all’interno del Movimento Cinque Stelle, che esprime una soddisfazione di facciata mentre in realtà è diviso.
L’impennata del 26 per cento in Borsa delle azioni di Atlantia dice che forse la disfatta della controparte del governo non è così umiliante. Ma dopo l’accordo sottoscritto all’alba di ieri, dalla maggioranza si alza un coro di lodi a Palazzo Chigi e a una «svolta storica». Soprattutto, si indovina il sollievo per avere chiuso in qualche maniera almeno uno dei molti dossier che il governo si trascina dietro da mesi. Rimane l’eco stonata degli ultimatum e delle accuse che sono rimbalzati tra M5S, Pd e Iv; con i grillini che definivano «venduti» quanti optavano per una linea prudente.
Lo scontento larvato dei Cinque Stelle per un compromesso inevitabile conferma quanto sia difficile attribuirsi un profilo moderato e governativo, contraddicendolo con un approccio estremista e alla fine perdente. Certamente, il ritorno della «mano pubblica» nella proprietà delle autostrade italiane dopo un ventennio è una sconfitta per i privati e la loro gestione: sconfitta provocata dall’arroganza con la quale hanno gestito la fase seguita alla tragedia del Ponte Morandi di Genova di due anni fa, mostrando gravi carenze nella manutenzione; e del modo iattante col quale hanno impostato la trattativa con il governo.
Ma la domanda è se questo segni un’altra tappa del domino dirigista che dovrebbe riportare allo Stato le industrie in perdita, nel segno di un assistenzialismo destinato a entrare in rotta di collisione con le norme europee e a riprodurre un’eredità di inefficienza e di sprechi. Oppure se si tratti di un’eccezione che non apre la strada alla vittoria culturale di un nuovo statalismo. Lo scontro che si è delineato in questi mesi riguarda due culture non solo economiche ma politiche. E ripropone le contraddizioni di un populismo grillino che predica moderazione; ma in parallelo pratica un estremismo fatto di slogan, e si mostra refrattario a qualsiasi principio di competenza e rispetto delle regole.
Se l’obiettivo della trattativa era di garantire continuità nella gestione dell’azienda e tutelare oltre 7 mila dipendenti, il risultato sembra almeno per il momento raggiunto. Di questo va dato atto al governo, nonostante la cattiva abitudine dei vertici e delle trattative notturni, nel segno dell’opacità e di una inclinazione a informare in modo studiatamente confuso. L’esaltazione dell’accordo, però, ha qualcosa di artificioso ed esagerato. La rapidità dei vertici del M5S e del Pd nel mostrarsi soddisfatti e concordi per l’epilogo è un tentativo evidente di puntellare la maggioranza in una delle fasi più convulse della sua breve vita.
Sostenere, come ha fatto il premier, che la trattativa è stata dura con la controparte e non nella coalizione, sa di verità politica. In realtà, le tensioni rimangono. La tempistica dell’uscita dei Benetton andrà verificata nei prossimi mesi: non a caso in teoria la revoca rimane sul tavolo come un’arma estrema. Si tenta di trasmettere all’opinione pubblica un messaggio di unità e di decisionismo, che dopo la prima fase del coronavirus sono vistosamente mancati. I riconoscimenti alleati a Conte dovrebbero mettere a tacere le voci di manovre per sostituirlo dopo l’estate: nel M5s, nel Pd e in Iv.
Ma l’applauso col quale i senatori grillini hanno accolto ieri il premier sbilancia pericolosamente Conte sui soli Cinque Stelle. In fondo, anche la scelta di non forzare la mano sul prestito del Mes, il Meccanismo europeo di Stabilità, rinviandolo non si capisce bene a quando, si inserisce nella stessa scia. Conte continua a dire che il Mes «non è all’ordine del giorno». Eppure, la trattativa con l’Europa sugli aiuti del Fondo per la ripresa si profila in salita. La cancelliera tedesca Angela Merkel lunedì scorso si è lasciata scappare un commento sul dossier autostrade, che il premier italiano ieri ha minimizzato con una punta di fastidio.
Forse bisognerà abituarsi alle battute europee sulle contraddizioni e i ritardi accumulati dall’Italia: soprattutto se il governo si preoccuperà solo di tacitare le caotiche falangi grilline. Per ora sono la sua garanzia di sopravvivenza. Tra qualche settimana potrebbero non bastare più a prolungare uno status quo spacciato come tappa di una virtuosa rivoluzione.