Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Miele
Siamo solo ai primi passi di questa nuova esperienza ed è fisiologico che le critiche – sia a destra che a sinistra -pecchino talvolta di incoerenza
Colpisce la stravagante eterogeneità delle iniziali sortite d’opposizione al governo presieduto dal professor Conte. Certo, siamo solo ai primissimi passi di questa esperienza ed è fisiologico che le prese di posizione antigovernative — sia a destra che a sinistra — pecchino talvolta di incoerenza e talaltra di mancanza di ordine logico. Ma in passato le cose non sono sempre andate allo stesso modo: gli azionisti dell’attuale coalizione — agevolati dalla possibilità di ricorrere a slogan radicali e antisistema — si fecero le ossa e maturarono un comune sentire in ben sette anni di implacabile opposizione; sette lunghissimi anni, a partire dall’autunno 2011 quando entrò in scena Mario Monti e poi con Letta, Renzi e Gentiloni. È un dettaglio spesso trascurato ma che spiega perché adesso sia stato così agevole amalgamare la base dei Cinque Stelle con quella della Lega, pur essendo le parole d’ordine delle due formazioni assai diverse. Ora, per evidenti motivi, non potrà darsi quel genere di fusione tra elettori e attivisti di Forza Italia, del Pd e di Leu. I primi si divideranno nel tempo tra i fautori di un contrasto intransigente al governo e i sostenitori delle ragioni di Matteo Salvini (contro quelle di Luigi Di Maio). Gli altri si frantumeranno ancor più, a causa della loro inguaribile litigiosità, tra i teorici dell’opposizione «repubblicana» prospettata da Carlo Calenda e i tattici impegnati a costruire una prospettiva imperniata sul recupero del dialogo con i pentastellati. Minimo comun denominatore, l’impegno a provocare una frattura tra i due vicepresidenti del Consiglio.
In ogni caso nelle ore che precedono il voto di fiducia, da destra è stato contestato — nell’ordine — al professor Conte di aver scoperto solo ora che l’Italia non è un Paese dove tutti sono corrotti; al ministro di Giustizia Alfonso Bonafede di volere al proprio fianco Piercamillo Davigo, Nino Di Matteo e altri magistrati antiberlusconiani; a Salvini di aver esagerato in annunci sui migranti (da Roberto Maroni); al presidente della Camera Roberto Fico di aver salutato la folla a pugno chiuso comportandosi in tal modo da «cosacco» (Vittorio Feltri); a Di Maio l’intenzione, attribuitagli, di nominare al vertice della Cassa depositi e prestiti Flavio Valeri, capo di Deutsche Bank italiana e, in quanto tale, «emissario di Berlino».
Da sinistra è stato rimproverato al governo di essere «il più a destra della storia d’Italia nel secondo dopoguerra» (con la conseguente almeno parziale riabilitazione del gabinetto guidato nel 1960 da Fernando Tambroni, che era sostenuto dal Movimento sociale italiano e fu travolto nelle piazze da manifestazioni antifasciste); al ministro della Difesa Elisabetta Trenta di avere per marito Claudio Passarelli, un ufficiale dell’esercito che si occuperebbe di appalti militari, di aver agevolato un accordo tra il suo ateneo, la Link di Vincenzo Scotti assai amata dai grillini, e un’università russa «molto cara a Putin», di aver avuto parte, tramite la Ong SudgestAid, nel reclutamento di soldati di ventura; il neoministro Lorenzo Fontana è stato accusato di aver disconosciuto le famiglie gay (in un’intervista a questo giornale); a Salvini di aver definito i militanti delle organizzazioni non governative «vicescafisti» (Roberto Saviano); al ministro degli Affari regionali Erika Stefani è stato mosso il rimprovero di aver promesso la concessione a Lombardia e Veneto dell’autonomia chiesta mesi fa tramite referendum; Di Maio è stato biasimato per l’intenzione di portare con sé Vito Cozzoli, già capo di gabinetto di Federica Guidi al momento del caso Tempa Rossa (che della stessa Guidi provocò le dimissioni).
I capi di imputazione, come è evidente, sono tra loro scarsamente omogenei. Oltreché di diverso rilievo. È prevedibile che il primo ministro a trovarsi davvero sotto il fuoco delle opposizioni (in particolare le opposizioni di sinistra) sarà quello dell’Interno a causa dei possibili sbarchi di migranti che da anni sono diventati il problema centrale dei mesi estivi. Qui oltretutto Salvini dovrà confrontarsi con la prova del suo predecessore Marco Minniti che, quantomeno da una parte degli italiani, è stata considerata soddisfacente. E potrebbe accadere già in quei giorni che si riproponga la strategia di quell’area della sinistra (anche dall’interno del Pd) che offre a Di Maio un patto alternativo a quello con la Lega. È probabile che l’estate del 2018 sia troppo ravvicinata perché torni a presentarsi questo scenario. Ma il giorno in cui ciò dovesse accadere sarà bene ricordare che la prova generale di tale passaggio non è stata quella delle quarantott’ore in cui sotto la supervisione dell’«esploratore» Fico si è tentato di mettere in sella un governo dei Cinque Stelle sostenuto dal Pd, bensì la fase successiva, quella in cui tenne banco il «caso Savona». In quei giorni ci fu a sinistra un movimento assai curioso. Esponenti di Leu e del Pd ritennero che fosse il momento giusto per dire tutto il bene che pensavano di Paolo Savona (la cui candidatura al ministero dell’Economia veniva respinta da Sergio Mattarella). Stefano Fassina definì quel professore «una persona autorevole e competente per forzare le regole europee, in particolare gli obiettivi del fiscal compact, irrealistici e pericolosi per l’eguaglianza e la giustizia sociale». Francesco Boccia vide in quel docente «una delle migliori personalità del Paese in materia economica» e disse anche che da ministro avrebbe costituito «un argine a Salvini» (cioè a quel Salvini che aveva proposto lo stesso Savona per il dicastero dell’Economia). Poi, quando Mattarella si irrigidì nel suo No, scesero in campo molti intellettuali, tutti o quasi premettendo di essere contrari al connubio Salvini-Di Maio e all’annunciato impeachment del capo dello Stato. Alcuni costituzionalisti (Massimo Villone, Lorenza Carlassare, Valerio Onida, Francesco Pallante, Ginevra Cerrina Feroni) riproposero una lettura dei testi di Costantino Mortati in cui, a parer loro, si negava che Mattarella avesse il diritto di opporre quel genere di veto. Identica opinione, pur definendo «abominevole» l’accordo di governo tra Cinque Stelle e Lega, espresse il direttore di «Micromega» Paolo Flores d’Arcais. Concordava il presidente di Libertà e Giustizia Tomaso Montanari che accusava Mattarella di aver «inflitto all’istituzione della Presidenza della Repubblica una torsione inaudita che costituirà un precedente pericolosissimo». Il veto a Savona fu dichiarato «inaccettabile» anche dallo storico Marco Revelli. E persino dall’intero gruppo dirigente della lista di sinistra «Potere al Popolo» che imputò a Mattarella di essersi reso «responsabile di una grave crisi istituzionale» per non aver accettato un ministro «considerato euroscettico e dunque non compatibile coi diktat della Ue». A titolo di cronaca va notato che Gustavo Zagrebelsky, da sempre massimo punto di riferimento di quest’area politico culturale, in quei giorni si astenne dal pronunciarsi con dichiarazioni di questo tipo.
Ad oggi non possiamo prevedere se già nell’estate del 2018 gli interlocutori che questi politici, giuristi, storici e filosofi hanno dentro il Pd riusciranno a egemonizzare il loro partito, a provocare un infarto al governo e la riapertura di un «negoziato» con i Cinque Stelle. Improbabile anche se non impossibile. Quel che è (quasi) certo è che tale prospettiva produrrà fibrillazioni nell’intera sinistra dove con ogni probabilità la stagione della concorde ricostruzione dovrà essere ancora una volta rinviata.