La presidente von der Leyen si è convinta che la debolezza di Scholz e Macron sia parte della sua forza e solo i prossimi mesi diranno se non sia vero, piuttosto, il contrario
Se qualcuno ora ha diritto di sentirsi raggirato, questi senz’altro è Emmanuel Macron. Il presidente francese si era visto promettere da Ursula von der Leyen un incarico più ricco di deleghe per il commissario europeo di Parigi, se avesse ritirato la conferma di Thierry Breton. E Macron si era prontamente adeguato: fuori Breton. Dentro in extremis, a Bruxelles, il 39 enne fedele macroniano Stéphane Séjourné. Risultato? I poteri concessi a Séjourné nella Commissione europea sono sensibilmente inferiori a quelli che aveva avuto lo stesso Breton, fino a ieri. A questi facevano capo le direzioni generali (equivalente bruxellese dei ministeri) «Industria della difesa e spazio», «Connect» (tecnologie) e «Grow» (Imprese). Al nuovo arrivato Séjourné non resta che la «Grow» e il vagamente maoista titolo di vicepresidente con delega a «Prosperità e strategia industriale».
Benvenuti nel secondo tempo di Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione, riconfermata per cinque anni, non è più la delfina di Angela Merkel che muoveva i primi passi in Europa all’ombra della cancelliera. Oggi von der Leyen dev’essersi convinta di poter dettare lei le condizioni del prossimo ciclo europeo. Lo si nota perché non esita più neanche di fronte a certe forzature. Il commissario olandese Wopke Hoekstra, a lei vicino, riceve un mandato di «lotta alle frodi fiscali e all’elusione». Ma Hoekstra è lo stesso che da ministro delle Finanze dell’Aia (2017-2021) assecondò la vocazione del suo Paese quale paradiso fiscale per i grandi gruppi; ed è lo stesso che una fuga di notizie rivelò coinvolto in una società nel paradiso delle Isole Vergini britanniche. Una volpe a guardia del pollaio. Hoekstra peraltro a Bruxelles dovrà anche perseguire una transizione verde più attenta alle esigenze delle imprese – obiettivo giusto – dopo essere stato in passato manager del colosso petrolifero Shell.
Ma von der Leyen 2.0 è anche questo: sullo sfondo delle leadership appannate di Macron a Parigi e di Olaf Scholz a Berlino, l’ex delfina della Merkel si muove con la sicurezza di una che sente di essere finalmente al centro dei giochi. Così lei stessa reinveste la propria forza per ricostruire ponti verso Roma ed accogliere le richieste di Giorgia Meloni, che chiedeva un ruolo di primo piano per Raffaele Fitto a Bruxelles. L’italiano diventa uno dei sei vicepresidenti esecutivi della Commissione, anche se la premier e gli eurodeputati del suo partito in luglio avevano espresso dissenso «per il merito e il metodo» della riconferma di Von der Leyen. Ora la leader tedesca segnala di voler riprendere il dialogo con Meloni e quest’ultima può rivendicare un successo simbolico, dunque politico.
Quanto poi al peso che concretamente Fitto avrà a Bruxelles, la partita si apre ora. A lui va la gestione dei fondi europei tradizionali, finora della commissaria portoghese Elisa Ferreira, oltre alla loro riforma. Ma si aggiunge un mandato sul Recovery, in coabitazione con il commissario lettone all’Economia Valdis Dombrovskis. Fitto avrà dalla sua la direzione «Regio» (fondi di coesione) e un’occasione preziosa per incidere se saprà usarla come un’agile caravella. Dombrovskis avrà la portaerei di Bruxelles, la direzione generale Economia e Finanza, e sarà rigido e molto filo-tedesco nella vigilanza dei conti pubblici di Paesi come l’Italia o la Francia.
Alla fine, i fili li tirerà von der Leyen. Si è convinta che la debolezza di Scholz e Macron sia parte della sua forza e solo i prossimi mesi diranno se non sia vero, piuttosto, il contrario. Di certo fra cinque anni 450 milioni di europei non la giudicheranno sui bilanciamenti del potere nella bolla di Bruxelles. La valuteranno dalla sua efficacia nel fermare e ribaltare la «lenta agonia» dell’Europa (copyright, Mario Draghi) in un mondo in tumulto. Il resto, scusate, conta meno.