Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Nava
Regole differenti tra un Paese e l’altro, ma anche tra una regione e l’altra nello stesso Paese. Così è più facile andare da Parigi a Palermo che da Milano a Novara
In Europa scatterà fra pochi giorni l’ora legale. È regola condivisa da decenni. Al tempo della pandemia, è scattata invece un’ora «illegale», diversa e poco condivisa da Paese a Paese. Di fronte a un pericolo micidiale per tutti, le contromisure variano a seconda dei colori delle bandiere e hanno indotto fantasiose trasgressioni. Il coprifuoco scatta alle 19 in Francia, alle 22 in Italia, come se le esigenze di circolazione fossero etnicamente diverse. In altri Paesi, più tardi o non scatta affatto. In Germania è in vigore un lockdown rigoroso, salvo ripensamenti dell’ultima ora dopo le risse fra governo e Laender.
Le misure restrittive non sembrano dipendere soltanto dal sacrosanto criterio dell’indice di contagio, ma da un decisionismo ondivago che — da Paese a Paese, da regioni a dipartimenti — chiude bar e ristoranti, lascia aperti negozi per lo shopping, apre a singhiozzo o chiude scuole, abbassa il numero di amici che si possono incontrare misurando affetti e chilometri di distanza. Sono considerazioni che si possono leggere su tutti i giornali europei, con un dato comune: la protesta contro i governi per ritardi e incorenze, l’insofferenza contro le misure di contenimento.
In Europa, è più facile andare da Parigi a Palermo che da Milano a Novara. Un milanese può fare una vacanza alle Canarie, ma non una gita sul lago di Como. La cacofonia normativa è sterminata, con approssimazioni che seguono le diverse ondate. La Gran Bretagna, prima negazionista, poi sotto chiave e oggi quasi fuori dal tunnel, ha così celebrato la Brexit.
Il massimo dell’assurdo si è raggiunto sulle nevi. Gli impianti sciistici sono stati fermati in Francia, Italia, Germania, ma non in Austria e in Svizzera. Non era questione di direttive europee (non applicabili nei cantoni elvetici) ma di buon senso. Oltre all’invasione lombarda delle piste di Saint Moritz (qui ristoranti e negozi chiusi, funivie e rifugi aperti!), mai come quest’inverno gli amanti della montagna hanno scoperto passeggiate in quota, ciaspole, sci da fondo, i più avventurosi il fuoripista e lo slittino. Chi ha avuto la possibilità di viaggiare in questi mesi, dentro e fuori l’Italia, ha trovato ristoranti sprangati e aperitivi di gruppo sul marciapiede, parrucchieri chiusi e saloni di bellezza aperti, treni e aerei pieni oppure con posti distanziati (secondo diversa valutazione del rischio da parte delle compagnie), controlli più o meno rigorosi alle frontiere, taxi che girano indisturbati nelle ore di coprifuoco, stazioni ferroviarie e metropolitane affollate. Diverse le disposizioni su tamponi e quarantene. Complicati dai controlli gli spostamenti fra aeroporti, più facili in treno, quasi liberi in auto, come se il virus corresse in cielo e non in autostrada o su rotaia.
Non è semplice, in regimi democratici, far rispettare divieti di massa, ma la confusione ha indotto insofferenze e comportamenti individuali trasgressivi. Un po’ come avviene con le sanzioni commerciali contro regimi colpevoli di violazioni dei diritti umani, puntualmente aggirate da contrabbando e da triangolazioni con Paesi alleati. O come avveniva per gli alcolici nell’America degli anni Venti: il «proibizionismo» ondivago, prolungato e «democratico», produce fantasiosi stratagemmi e improbabili giustificazioni per essere aggirato. Mentre ci sono categorie e movimenti politici che protestano e vorrebbero un irresponsabile «liberi tutti», i cittadini si auto-organizzano, in sostanziale clandestinità, essendo impossibili controlli di massa. La fantasia corre. I genitori pretendono la prova tampone sul cellulare prima di aprire la casa per la festa di compleanno dei figli. Si balla, ma non a tutto volume, si cena al ristorante, ma passando dal retrobottega, si va nell’albergo termale, basta avere il certificato medico per improvvisa artrite, si dorme da amici, per tornare a casa propria alla fine del coprifuoco. «Le leggi inutili — ha scritto Montesquieu — indeboliscono le leggi necessarie».
Come nel «proibizionismo» di altre epoche, non sono i rigori della legge a impedirne l’aggiramento, ma variabili sociali, economiche e per classi di età, fino a quella più intima e incontrollabile che è la percezione individuale del rischio. Tale percezione è influenzata da elementi caratteriali e culturali ma anche dal modo con cui il rischio viene comunicato, dalle autorità, dalla scienza, dai media.
La cacofonia della comunicazione ha amplificato disparità di valutazioni politiche e scientifiche, inevitabili errori di fronte a un nemico sconosciuto, una narrazione dell’epidemia che ha spaziato dall’allarmismo ossessivo e ansiogeno al negazionismo irresponsabile. I cittadini sono stati disorientati dalla complessità di ordini e contrordini e dal coordinamento, a dir poco precario, fra regioni e governi centrali (in cui è rimasta impigliata persino la Germania), fra governi e Commissione europea.
Sull’acquisto e la distribuzione dei vaccini si è sfiorata la rissa e si è diffusa la tentazione che ciascun Paese andasse per conto proprio. Sulla questione dell’efficacia di un vaccino, AstraZeneca, l’Europa ha vissuto uno psicodramma, in cui l’approssimazione dei media ha condizionato la politica, la paura ha sospeso la scienza, l’irrazionalità ha messo a rischio la tutela della salute. Lo psicodramma è durato per fortuna soltanto un paio di giorni, ma i danni sono stati notevoli e una decisione rovesciata in così poco tempo non ha contribuito a fugare dubbi scientifici e sospetti di speculazioni commerciali. Forse bastava il vaccino del buon senso.