19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Sabino Cassese

Sanità, scuola e giustizia, cioè più della metà del settore pubblico, hanno mostrato cedimenti

La pandemia ha messo a dura prova strutture, procedure e personale dello Stato. Le forze dell’ordine, la difesa, il vertice dell’apparato esecutivo e anche il Parlamento hanno retto bene. Sanità, scuola e giustizia, cioè più della metà del settore pubblico, hanno mostrato cedimenti.
La sanità è dovuta ricorrere all’esercito per la realizzazione del piano vaccinale. Ha concentrato gli sforzi sui contagiati, ma tralasciando le altre patologie. Ha dato segni preoccupanti di scoordinamento: pensavamo che vi fossero due sanità, abbiamo scoperto che ve ne sono venti, con protocolli e tempi diversi; insomma, la sagra del regionalismo differenziato, con una preoccupante indefinizione dei compiti tra centro e periferia. La sanità ha pagato, inoltre, il costo della riduzione degli osservatori epidemiologici e delle strutture di sorveglianza e di promozione della salute. Ha mostrato il vuoto o la debolezza della medicina territoriale. Ha tradito il disegno del 1978, quello del Servizio nazionale, cioè della rete: questa o non c’è, o è piena di buchi. Alle difficoltà conseguenti a queste carenze ha sopperito il personale sanitario: messo sulla linea del fuoco, è riuscito a fronteggiare i momenti più difficili ed ora riesce a reggere la pressione della esecuzione di compiti estesi come la vaccinazione.
La scuola italiana ha chiuso i battenti più a lungo degli altri sistemi educativi europei, ricorrendo per troppo tempo alla didattica a distanza, come se questa potesse sostituire quella in presenza. Si sono trasposte alla leggera le lezioni frontali in classe con quelle «on line», senza capire che la didattica a distanza richiede metodi diversi, differente articolazione dell’insegnamento, apposite procedure di accertamento dell’apprendimento. Il personale insegnante non è stato aggiornato sull’uso dei nuovi mezzi di trasmissione. Gli studenti si sono sentiti soli, spesso anche privi degli strumenti tecnici necessari per ascoltare le lezioni. Per questi differenti motivi, l’apprendimento mostra ora molte carenze e la dispersione scolastica è aumentata. A differenza della sanità, il personale, salvo meritorie eccezioni, non ha cercato o non è stato in grado di far fronte alla nuova situazione, e i sindacati della scuola, che vociano solo quando si tratta di sistemare in ruolo precari, hanno perduto un’altra occasione per mostrare che hanno a cuore l’istruzione degli italiani.
La giustizia è il servizio pubblico uscito più tardi dal «lockdown», mettendo in seria crisi non solo gli avvocati, ma anche tutti gli altri utenti che hanno bisogno degli uffici giudiziari. I procedimenti definiti si sono ridotti di un quarto, quelli iscritti di un quinto, con un effetto complessivo di riduzione delle pendenze. Il ritardo ha influito in due modi sulla giustizia, perché l’ha rallentata, ma ha anche scoraggiato chi voleva rivolgersi ai giudici. La contrazione, nelle materie di lavoro e previdenza, è stata anche maggiore. Nonostante la riduzione dei nuovi procedimenti iscritti, il risultato è un aumento dell’arretrato, che ammontava già a sei milioni di procedure. I rappresentanti della magistratura, nonostante questa situazione, dichiarano ora che fissare i tempi dei giudizi «significa togliere serenità ai giudici». Il corpo degli addetti alla giustizia, con qualche eccezione, si è comportato come se la situazione non lo riguardasse, come se non potesse, con un maggiore impegno, almeno compensare il costo dei disagi patiti dagli utenti. Ecco un altro effetto del disegno errato della giustizia italiana, costruita come un insieme di monadi isolate, versione estrema della indipendenza concepita quasi come libertà da ogni vincolo o dovere. Si aggiunge ora una opposizione a far decorrere la prescrizione, come se questa non fosse un rimedio alla lentezza dei processi, la cui velocità è in ultima istanza nelle mani dei giudici stessi. In qualche carcere, poi, per far fronte alle tensioni prodotte dallo «stress test» della pandemia, invece che all’arma della cura e della comprensione, si è ricorso a quella del manganello.
Come si vede, i cedimenti segnalati hanno riguardato elementi diversi (la rete nella sanità, la cultura educativa nella scuola, una motivazione collettiva nella giustizia), hanno prodotto disfunzioni di differente natura e di disuguale peso e sono stati compensati dalla dedizione del personale nel primo caso, non negli altri due. Il Piano nazionale di ripresa e di resilienza prevede soluzioni specifiche ai problemi elencati (tra le riforme orizzontali e nelle missioni 4 e 6). Ma le disfunzioni mostrate dalla prova da sforzo, imposta dalla pandemia e dalle chiusure che sono seguite, vanno al di là di un piano di sei anni, indicano cedimenti strutturali, che richiedono anche altri interventi, di più lungo periodo.

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