16 Settembre 2024
Gentiloni 2

Il commissario europeo uscente: «L’instabilità economica può avere conseguenze economiche gravi per tutti»

«Il punto è se scegliere di contribuire al riscatto europeo, che non può più venire dal motore franco-tedesco, e questo schiude un ruolo decisivo all’Italia, ovvero puntare su chi vuole indebolire l’Unione, a vantaggio di interessi nazionali gretti e nostalgici. Io confido che questa sia la consapevolezza del governo. È una grande occasione per il nostro Paese e non dovremmo lasciarcela sfuggire». Paolo Gentiloni pesa bene le parole. Il Commissario europeo all’Economia è preoccupato dal risultato francese, che getta un’ombra sul futuro dell’Unione, ma crede nel vecchio adagio che non bisogna mai sprecare una crisi. «Valuteremo i risultati della scommessa di Macron lunedì prossimo – dice l’ex Presidente del Consiglio nell’intervista al Corriere -. Di sicuro la situazione è difficile, soprattutto in una prospettiva europea. L’importanza della Francia è innegabile e lo scenario di un Paese che ha un sistema presidenzialista, nel quale il presidente non ha una maggioranza in Parlamento o addirittura ne ha una ostile, non ci può lasciare indifferenti».

Ma in teoria la struttura istituzionale francese, che affida la politica estera e di difesa alla responsabilità del presidente, ci garantisce sul percorso europeo di Parigi.
«In realtà è un terreno nuovo. Nelle coabitazioni del passato, i presidenti avevano comunque minoranze robuste all’Assemblée Nationale e soprattutto le distanze tra destra e sinistra sull’Europa non erano paragonabili a quelle attuali con il Rn. Mitterrand andava ai Consigli europei con Chirac, a parti invertite quest’ultimo spesso veniva da solo senza Jospin. Non ci sono regole scritte. Il gioco delle desistenze può evitare una maggioranza assoluta del RN ma è difficile che a sua volta si traduca in una maggioranza diversa. Il fatto certo è che sta succedendo qualcosa di cui faremmo bene a renderci conto: in un momento di guerre, di crisi, di totale incertezza geopolitica, l’epicentro dell’instabilità si sta spostando verso le due grandi case della democrazia, cioè gli Stati Uniti e l’Europa. Io lo trovo molto allarmante. Il rischio più importante viene sicuramente dalle autocrazie come la Russia e la Cina, dai conflitti, dalla crisi climatica. Ma una quota importante di rischio è in casa nostra e non va sottovalutata».

Lei che conclusioni ne trae?
«Una sopra tutte. Che è il momento di una sveglia per gli europei. Guardi, non è solo il caso francese. L’Europa può diventare centro di instabilità, volatilità, incertezza. E si illude chi pensa che questo clima non avrà conseguenze economiche gravi per tutti».

Per rimanere alla Francia, molti però ipotizzano che, una volta al potere, anche Marine Le Pen seguirebbe un’evoluzione simile a quella di Giorgia Meloni sui temi europei e sull’atlantismo, una cosiddetta «melonizzazione». Lei ci crede? 
«Me lo sento chiedere spesso in queste settimane da capi di governo, banchieri centrali, ministri delle Finanze. Vedremo in che posizione sarà il RN dopo il 7 luglio. Io non scommetterei su una rapida conversione al mainstream europeo e atlantico. Al di là delle storie personali, ci sono tre questioni politiche – la prima si chiama Putin, la seconda Nato, la terza Unione europea – e a queste si aggiunge la semplice constatazione che i leader politici francesi hanno un’idea di sé diversa da noi italiani. Ce lo mostrano gli 80 anni di Storia del Dopoguerra, quando la Francia si è a volte convinta di potersi permettere dei livelli di rottura con il consenso euro-atlantico cui noi italiani non pensiamo neppure: ricordo solo la Comunità europea di Difesa o la “sedia vuota” di De Gaulle. Oltre alla differenza di posizioni politiche, per esempio sulla Russia, che è ovvia, è anche diversa la percezione di sé. No, non credo che nel giro di poche settimane un eventuale governo del Rn avrebbe posizioni assimilabili all’acquis europeo».

Facciamo l’ipotesi contraria. Massimo Franco ha scritto che «il risultato francese sta facendo slittare a destra il governo italiano». C’è la possibilità di una «lepenizzazione» di Giorgia Meloni? 
«Il fatto che l’Unione europea, come gli Stati Uniti, stia diventando l’epicentro di una crisi, richiede una risposta, che può andare a mio avviso in una sola direzione: puntare sulle istituzioni comuni. Dobbiamo smettere di fare i sonnambuli e guardare in faccia la realtà. Il famoso motore franco-tedesco non è mai stato così debole. Quindi, direi che affidarsi all’Unione sia la cosa più ragionevole. Significa che nonostante la tempesta francese, la debolezza tedesca e consapevoli delle sfide globali poste dalla Cina e dalla possibile vittoria di Trump, gli europei hanno la chance di scommettere sulle loro istituzioni. Se si sveglia l’Europa, abbiamo ampi margini di riscatto e strade importanti già tracciate, per esempio dai rapporti di Mario Draghi sulla competitività e di Enrico Letta sul mercato unico. Siamo riusciti a reagire egregiamente a una pandemia e a una guerra. Ora dobbiamo avere un’Unione europea capace di reagire al pericolo che incertezza e fragilità investano le due grandi aree democratiche del mondo, l’America e l’Europa. Anche perché, se a novembre venisse eletto Trump, non c’è dubbio che la competizione da parte americana, già presente, diventerebbe feroce».

Parigi, in questo caso Le Pen, non vale l’Europa? 
«Dico che per amore o per forza, l’Italia ha bisogno dell’Unione e l’Unione ha bisogno dell’Italia. Non solo perché come ricorda il presidente Mattarella, l’europeismo fa parte della nostra identità: siamo patrioti italiani, in quanto anche patrioti europei. Di più, crisi, guerre, instabilità e il loro impatto economico sono tutti elementi che identificano il nostro interesse nazionale nel riscatto europeo. Non credo che abbiamo alcun interesse a far la fronda all’Unione europea, lasciamo questo lavoro ai mini-nazionalismi nostalgici, non è il compito di un grande Paese».

Ma la «fronda» l’ha fatta l’Italia o l’hanno fatta gli altri isolando l’Italia in Consiglio europeo, come lamenta Meloni? 
«Tutti sono consapevoli del ruolo dell’Italia, della sua importanza, del fatto che oggi esprime uno dei governi più stabili dell’Unione. E nessuno, dico nessuno vuole umiliarla. Detto questo, non si può nascondere l’esistenza di una maggioranza, fatta da tre grandi partiti tradizionali, che si è presentata come tale alle elezioni ed è stata confermata, sia pure con numeri ridotti. È la maggioranza su cui punta Ursula von der Leyen, ma questo non relega nessuno ai margini, non è stato così in passato e non si vede perché dovrebbe esserlo in futuro. Governi che non si riconoscevano in questo schieramento hanno avuto ruoli importanti e i loro premier hanno votato a favore del presidente della Commissione designato. Von der Leyen prova ad ampliare il perimetro di sostegno senza però accordi politici con la destra. E c’è un pieno riconoscimento del ruolo dell’Italia».

Quindi lei invita Meloni e Fratelli d’Italia a votare von der Leyen in Parlamento?
«Questo lo lascio alle valutazioni della premier. A me pare che von der Leyen abbia impostato le cose molto correttamente, cioè maggioranza delle tre grandi famiglie europeiste e poi dialogo con singole forze o famiglie politiche come i Verdi, senza per questo prefigurare alleanze strutturali. È la politica, nel senso migliore del termine».

Su quale tipo di incarico deve puntare il governo italiano? 
«Sono l’ultima persona a poter dare consigli. La mia osservazione è che sarà utile per l’Italia discutere anche delle caratteristiche e degli obiettivi che avrà il prossimo commissario all’Economia, che difficilmente potrà essere un italiano, ma per noi è molto importante».

È iniziata ieri la presidenza di turno ungherese. Bisogna preoccuparsi, viste le posizioni di Orbán, che fra l’altro sta chiamando a raccolta le forze di estrema destra antieuropeiste? 
«Voglio ricordare che Orbán è da un lato molto profilato politicamente e ideologicamente, ma dall’altro molto pragmatico. Ha votato a favore del socialista António Costa come Presidente del Consiglio europeo. La prima missione all’Estero la sta facendo in queste ore a Kiev. Siamo però in un mondo con al centro due grandi instabilità e un leader come Orbán cercherà sicuramente di cogliere le opportunità che gli possono venire dalla tempesta francese, dalla debolezza tedesca, dall’eventuale elezione di Trump in novembre. Non c’è dubbio che quella parte delle forze politiche europee che scommette sui nazionalismi, su un’Europa più debole sul piano dei diritti individuali e lo Stato di diritto, possa pensare di trovarsi in un momento propizio. Opporsi e smentirla sta alle forze che, come i socialisti e democratici, vogliono puntare su un’Unione più forte, a cominciare dal voto del 18 luglio al Parlamento europeo su Ursula von der Leyen: sicuramente quello più importante della storia parlamentare europea».

Il ricompattamento a sinistra provocato dal fallimento dell’azzardo di Macron, di cui vedremo gli esiti domenica prossima, è un modello anche per la sinistra in Italia? 
«È il ballottaggio, che conosciamo nella storia dei sindaci. Per il resto, sono riluttante agli entusiasmi di giornata. Sono contento che in Francia esista una spinta per far blocco contro una destra che è un problema anche per l’Europa. Ma non credo si possa immaginare il futuro della sinistra in Italia all’insegna dello slogan: ora e sempre desistenza. Mi entusiasmerei piuttosto per la possibile vittoria, domani nel Regno Unito, di un partito laburista tornato a una cultura maggioritaria e di governo dopo 15 anni di radicalismo, che ha anche consentito ai conservatori di precipitare la Brexit. Anche in Italia, il compito è di costruire un centro-sinistra con una cultura di governo».

Per finire con le cose di cui si è occupato in questo cinque anni. Quanto è solida l’Eurozona? Ci sono rischi contagio anche in Italia, nel caso di una crisi dei mercati in Francia? 

«Le crisi, le instabilità e le guerre fin qui non hanno compromesso un cammino di graduale ripresa, calo dell’inflazione (come ha confermato anche il dato di giugno) e di forte tenuta dell’occupazione. Incertezza e instabilità non hanno finora compromesso questo percorso economico. Negli USA è ancora più clamoroso, la differenza tra un’economia che va molto bene e una politica impazzita. Come se i due mondi fossero reciprocamente immuni. La prima sembra ignorare il frastuono della politica. Ma non sarà così a lungo. Rafforzare le istituzioni europee è anche un messaggio preventivo di fronte al rischio che maturino tensioni nei mercati. Innescate da fatti geopolitici o da crisi interne in altri paesi, queste tensioni avrebbero inevitabilmente una ricaduta anche sull’Italia».

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