10 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Lorenzo Bini Smaghi

La legge Golfo-Mosca sulle quote scade quest’anno ma per consolidare i risultati va rinnovata. Anche nell’interesse delle aziende e del Paese


La legge Golfo-Mosca sulle «quote di genere» nei Consigli di amministrazione, che scade quest’anno, viene generalmente considerata come un successo, poiché ha consentito di far salire oltre il 33,5% la percentuale di donne nei Cda delle società quotate italiane. Secondo alcuni, questo successo dovrebbe giustificare il rinnovo della legge. Altri, invece, ritengono che oramai l’obiettivo sia stato raggiunto e che non ci sia più bisogno di prolungare meccanismi distorsivi come le quote, demandando il tema a semplici codici di condotta.
In realtà, il risultato ottenuto dalla legge appare alquanto deludente. L’obiettivo era infatti quello di ottenere che almeno un terzo degli amministratori fosse del genere meno rappresentato, cioè quello femminile. Il risultato è stato di assestarsi sul limite inferiore definito dalla quota. Se la legge avesse richiesto un minimo del 25%, probabilmente il risultato sarebbe stato intorno al 25%. Ciò evidenzia che l’imposizione per legge di una quota minima non riesce a raggiungere un risultato molto diverso da quella soglia. Sono rare le aziende che sono andate oltre. Pertanto, se l’obiettivo tendenziale di una società moderna è quello di tendere verso un rapporto di parità tra i due generi, appare necessario non solo rinnovare la legge Golfo-Mosca, ma anche innalzare la soglia minima della quota di genere meno rappresentata, ad esempio dal 33% al 40%, come è il caso in Francia.
Vi sono almeno due ragioni per andare in questa direzione. La prima è che esiste oramai un’ampia evidenza empirica che dimostra la resistenza diffusa a far entrare le donne nei posti di responsabilità aziendale. L’esperimento più noto si basa su un ampio campione di audizioni per musicisti e direttori d’orchestra svolte negli anni dalla Boston Philarmonic, che mostra come la parità di genere nella scelta della giuria è stata raggiunta non quando il musicista veniva esaminato dietro una tenda, ma solo quando non si sentiva il candidato avvicinarsi al podio (e non si poteva distinguere se portava i tacchi o meno). L’aspetto interessante di questa ricerca è che la discriminazione negativa nei confronti dei candidati femminili era indipendente dalla composizione per genere della giuria. Una tale distorsione comportamentale, confermata da molte ricerche, non può essere superata senza una serie di contro-misure legislative. È una illusione pensare che siano sufficienti dei codici di comportamento.
Il secondo motivo è che la parità di genere nei Cda, e più in generale nelle posizioni di vertice, contribuisce a migliorare la performance delle aziende. Esiste oramai un’ampia letteratura al riguardo. Un recente studio analizza l’evoluzione della redditività del capitale di un campione di 617 aziende di vari Paesi, suddivise in due categorie, a seconda che abbiano nei loro consigli una sola donna o meno, e più di tre donne. I dati mostrano che in media le aziende con consigli comprendenti una sola donna o meno hanno registrato negli ultimi anni una redditività decrescente, mentre quelle con più di tre donne hanno una redditività superiore e in aumento. L’analisi mostra che una maggiore parità di genere contribuisce a formare Consigli di amministrazioni più diversificati, con maggior complementarietà, non solo di genere ma anche di età e di esperienze professionali. Non è comprovata la tesi, spesso sostenuta in alcuni ambienti — anche femminili — secondo cui la ricerca della parità vada a scapito del merito. L’evidenza mostra semmai il contrario, ossia che la spinta a favore della parità contribuisce a migliorare i requisiti meritocratici, in particolare della componente maschile.
La parità di genere è diventata peraltro un fattore discriminante nelle scelte di investimento dei principali fondi internazionali e delle società di proxy advisor che consigliano gli investitori su come votare nelle assemblee degli azionisti, in particolare al momento del rinnovo dei Consigli di amministrazione. Gli investitori tendono a valutare positivamente i Paesi che adottano politiche proattive per favorirla e le aziende che si pongono obiettivi espliciti di parità di genere, non solo nella composizione del management ma anche nella remunerazione. Di recente, uno dei più grandi fondi di investimento ha scritto alle aziende partecipate per incoraggiare una politica di diversità, ricordando in particolare che «i Consigli di amministrazione con una composizione che assicura adeguata diversità di genere, di etnie, di esperienze professionali e di modo di pensare sono maggiormente in grado di identificare i rischi cui fanno fronte le aziende e le opportunità di crescita di lungo termine». L’Italia ha un enorme bisogno di attrarre investimenti. Non sembra pertanto questo il momento di ridurre la pressione per favorire l’accesso delle donne alle posizioni di vertice, a cominciare dai Cda. La pressione, semmai, va aumentata.

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