Grazie alle quote rosa introdotte con la recente riforma (legge 71/2022), il Parlamento ora deve assicurare l’equilibrio
Il tema della parità di genere mai come in questi giorni sta avendo centralità nel dibattito politico: merito certamente della presenza di un presidente del Consiglio donna. E così si assiste alla ricerca spasmodica di tutto ciò che fino a oggi si declinava solo al maschile per tradurlo in parole che risultano più rispettose del coinvolgimento femminile, anche a rischio di scadere nel ridicolo. Si stigmatizzano comportamenti, posizioni politiche e azioni per individuare una parità che, nella sostanza, non è ancora veramente assicurata. «Piatto ricco mi ci ficco»: è troppo ghiotta l’occasione per non provare ad aggiungere al prezioso dibattito qualche ulteriore elemento di riflessione.
Qualche mese fa l’Università Bocconi di Milano ha pubblicato una ricerca molto interessante sul coinvolgimento delle donne nei reati di corruzione dalla quale emerge che le stesse risultano meno coinvolte. Le ragioni di ciò sono in verità poco lusinghiere: la virtù anticorruttiva delle donne risiederebbe nella mancanza di occasioni e cioè nel fatto che le donne sono meno coinvolte in posizioni di «potere» visto che occupano, in percentuale, meno poltrone importanti rispetto agli uomini. Dall’esperienza che ci viene dai fatti di cronaca potremmo dire che questo dato ci torna. Pur preferendo pensare che ciò sia dovuto anche al fatto che probabilmente le donne hanno, di indole, un maggior senso del pericolo, e quindi in modo pratico cercano di stare lontane dai guai, va detto che è certamente oggettivo che le donne spesso sono fuori dai «giochi», anche perché nel tentativo di combinare carriera e famiglia non sempre si riesce a portare tutto a casa, risultando più facile attestarsi in posizioni di retrovia.
e donne sono meno presenti ai vertici delle amministrazioni, delle società o degli enti e soprattutto occupano meno posizioni di potere. E la politica, sebbene stia dimostrando una grande sensibilità sul tema non sempre le ha aiutate in maniera adeguata, risultando necessario ancora oggi scomodare le «quote rosa», certamente non appaganti per una vera cultura della parità, per assicurare alle donne adeguata visibilità. Così, è proprio grazie alle quote rosa introdotte con la recente riforma (legge 71/2022), che il Parlamento per le nomine dei componenti laici del Consiglio Superiore della magistratura (fissate per il 13 dicembre) dovrà assicurare l’equilibrio di genere nel nuovo Csm.
Una conquista importante, sebbene parziale. La modifica, infatti, vale solo per il Csm e non per gli altri organi di autogoverno delle altre magistrature per i quali le donne dovranno affidarsi «al buon cuore» dei parlamentari o chissà contare sugli effetti dell’attuale virtuoso dibattito per nomine in gonnella. È un primo passo quello fatto con la modifica normativa della composizione del Csm, anche perché servirà a scongiurare tornate di nomine come quella in scadenza: nel 2018, infatti, il Parlamento dimenticò proprio di considerare le donne nelle sue votazioni nominando solo uomini, in tutto 20, per tutti gli organi di autogoverno: per il Consiglio Superiore della Magistratura 8 membri laici (che passeranno ora a 10); per il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, per il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti e per il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, 4 membri laici per ogni organismo.
Ma ora che possiamo contare su tanta sensibilità politica in tema di parità di genere, siamo fiduciose che simili situazioni non si verificheranno più. E così confidiamo che la storia non si ripeta quando tra qualche settimana il Parlamento dovrà individuare i nomi dei componenti degli organi di autogoverno delle magistrature speciali e che soprattutto le donne che operano in politica rivendichino la possibilità che anche professoresse e avvocatesse possano essere chiamate ad assumere così importanti incarichi realizzando l’«aspirazione ideale» della stessa politica.
E, sempre in tema di parità di genere, non può non sottolinearsi come invece sia passata sottotraccia la mancata approvazione di una norma che era presente nel disegno di legge sulla concorrenza, proposta dal governo uscente, poi varato in fretta e furia durante una insolita calura estiva (legge 118/2022). Nessun attore politico si è doluto o indignato per l’eliminazione della norma che per la procedura di nomina dei vertici di tutte le autorità amministrative indipendenti prevedeva, oltre all’istituzione di una Commissione per la valutazione dei curricula dei futuri candidati, anche il rispetto del principio della parità di genere. La norma è stata così sacrificata sull’altare di una ben più importante partita e cioè quella di mantenere le nomine a esclusivo appannaggio della politica senza creare un passaggio intermedio di valutazione da parte di una Commissione, che ragionevolmente sarebbe stato comunque di nomina politica.
A memoria d’uomo, allo stato la regola della parità di genere per i vertici delle autorità indipendenti più importanti è prevista normativamente solo per una, mentre per tutte le altre ci si affida alla magnanimità della politica per garantire una ragionevole percentuale di quote rosa, a oggi rappresentate da meno del 30 per cento dei consiglieri.
Naturalmente va scongiurata la possibilità che vengano nominate donne «a tutti i costi» perché questo non giova alle donne: basterebbe solo qualche appellativo in meno e qualche opportunità vera in più.<