Si percepisce un’incomunicabilità che è in primo luogo culturale. E la disponibilità non basta
Dire che è una partenza in salita suona come un eufemismo. Ma anche l’idea del dialogo tra sordi non rende abbastanza l’atmosfera che avvolge i primi contatti tra partiti. In realtà, sulle riforme costituzionali si percepisce un’incomunicabilità che è in primo luogo culturale; e che la disponibilità a soddisfare le richieste altrui non cancella. Il punto di partenza comune è la fatica a assicurare ai governi un simulacro di stabilità. Ed è una preoccupazione condivisibile. Il problema è come viene superata.
Se si va verso un cambiamento preparato con serietà e declinato con chiarezza, con l’intesa più larga tra le forze politiche, una riforma sarebbe non solo benvenuta ma da condividersi. Il dubbio è che finisca per ricalcare le scorciatoie e i pasticci del passato: un’eredità di tentativi che hanno lasciato troppe macerie.
I primi passi di ieri ripropongono le perplessità, purtroppo. Si indovina un fossato che attraversa maggioranza e opposizioni. Ammettere che non si riesce a far durare un esecutivo per un’intera legislatura a causa dell’eterogeneità delle coalizioni elettorali richiederebbe una capacità di autoanalisi possibile in un sistema politico in salute. L’attuale, invece, viene da anni di commissariamento e di trasformismo. È dunque infragilito e spaventato dall’astensionismo crescente, nonostante il «ritorno della politica» sancito dalle elezioni del 25 settembre scorso. E fa riemergere in modo prepotente la tentazione di mettere mano alla Costituzione per ottenere quello che il sistema non riesce a garantire.
Ma su questo punto le distanze aumentano ulteriormente. Emerge il conflitto tra chi ha sempre considerato la Carta fondamentale come un manifesto unitario; e quanti invece l’hanno considerata, se non estranea, comunque costruita dagli «altri», e dunque da modificare: anche se è stata la massima garanzia di partecipazione e di rispetto del voto popolare per tutti. Ora, si riaffaccia l’idea che la Repubblica parlamentare sia stata un ostacolo per la stabilità; e che solo un potere verticalizzato e personalizzato, baciato da un’elezione popolare diretta, permetterà all’Italia di uscire dalla patologia. È una suggestione non nuova, e sempre potente. E probabilmente, raccoglie consensi in crescita.
Promette, tuttavia, di acuire la spaccatura del Paese e di distoglierlo dalle vere urgenze. Lascia prevedere compromessi al ribasso o forzature, in assenza di una condivisione dei valori comuni. E proietta un alone di diffidenza reciproca: un atteggiamento tale da far temere manovre dilatorie da parte delle opposizioni; e voglia di resa dei conti della maggioranza usando l’arma impropria delle riforme costituzionali. È un impulso che sembra mostrare anche chi, come i renziani, dopo essere stati sconfitti nel 2016 nel referendum per l’abolizione del Senato, ora cerca di rifarsi appoggiando il governo in cambio del superamento del bicameralismo: da opposizione «non pregiudiziale».
Non sorprende che su questo sfondo i colloqui di ieri tra Giorgia Meloni e i vertici di M5S e Pd, soprattutto, si siano conclusi con una fredda presa d’atto di posizioni al momento inconciliabili. La richiesta di una commissione parlamentare avanzata dal leader dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte, è stata accolta dalla premier come una manovra dilatoria. E lo scetticismo del Pd di Elly Schlein al confronto con una destra che potrebbe avere «già deciso» è visto dalla maggioranza come un motivo in più per andare avanti «con chi ci sta». Il retropensiero è quello di una contrapposizione destinata a inasprirsi. E a scaricarsi presto sulla presidenza della Repubblica: l’istituzione che in questi anni è stata considerata di garanzia per antonomasia; e che è riuscita a rafforzare un equilibrio e un’immagine di unità, messi a disposizione della credibilità italiana anche sul piano internazionale.
È evidente che, se dovesse prevalere la spinta a riformare la Costituzione in direzione del presidenzialismo, questo ancoraggio si allenterebbe: senza peraltro assicurare una soluzione sulla quale la stessa maggioranza si presenti concorde. In una fase già estremamente delicata, il sistema dovrebbe ricostruire e riscrivere dalle fondamenta l’equilibrio tra poteri dello Stato; e, almeno per ora, con la quasi certezza di non ritrovarsi su alcuni valori fondamentali. Ma senza questa condivisione, qualunque «modello italiano», anche il più originale e innovativo, non eliminerebbe la precarietà del nostro sistema. Rischierebbe piuttosto di aggravarne l’anomalia, restringendo garanzie che finora hanno protetto tutti; e che sarebbe azzardato sacrificare sull’altare di una stabilità governativa evocata come alibi per non riconoscere e correggere i propri limiti.