Fonte: Corriere della Sera
di Enzo Moaveri Milanesi
Al vertice dei leader degli Stati che adottano l’euro di domani partecipano, eccezionalmente, anche i paesi che non fanno parte dell’Eurozona. L’impostazione che sarà concordata in sede Ue condizionerà anche in futuro qualsiasi governo italiano
In Europa, al termine del 2017, anno elettorale in molti paesi, dove le forze politiche sfavorevoli all’Unione europea non hanno prevalso — pur raccogliendo un gran numero di voti — restano centrali i temi economici, rispetto ai quali il baricentro decisionale si sposta sempre di più nelle comuni sedi Ue. In questo contesto, s’inserisce l’importante vertice dei leader degli Stati che adottano l’euro quale moneta (l’Eurosummit) di domani, al quale partecipano, eccezionalmente, anche i paesi che non fanno parte dell’Eurozona. C’è la convinzione che occorra intervenire sugli assetti di governo dell’economia europea. Al riguardo, dopo molte dichiarazioni, soprattutto dei governi di Francia e Germania, è stata la Commissione europea a lanciare, il 6 dicembre scorso, un nutrito pacchetto di misure (autodefinito roadmap per l’unione economica e monetaria) che sarà al cuore dei lavori dell’Eurosummit. La sua lettura colpisce per due ragioni di fondo. Da un lato, per ciò che propone: non ci sono vere novità, perché le idee circolavano da tempo; tuttavia, è ai dettagli che va prestata grande attenzione. Dall’altro, per l’assenza di opzioni ancor più innovative, che potrebbero accelerare un riequilibrio fra gli Stati membri dell’Unione. Considerato l’evidente rilievo per l’Italia, è singolare che se ne parli poco. Invece, bisogna discuterne, anzitutto nell’immediata prospettiva del vertice dell’Unione e poi, in vista del confronto politico per le nostre prossime elezioni. Infatti, l’impostazione che verrà concordata in sede Ue condizionerà ulteriormente i margini operativi di qualsiasi governo italiano in materia economica e quindi, le promesse e i programmi dei partiti. Forse, non è inutile qualche considerazione, di estrema sintesi.
Segnalerei per prima la misura che riguarda il fiscal compact, il patto del 2012, assurto a paradigma del rigore per i conti pubblici nazionali. Essendo un trattato fra governi, era previsto di valutare come integrarlo appieno nel diritto Ue. Molti, nel nostro Paese, attendevano questo momento per attenuarne la portata; ricordiamo affermazioni bellicose, annunci di veti, come pure ipotesi costruttive di emendamento. Dopo tante congetture, arriva sul tavolo una semplice proposta di direttiva che, ci dice la Commissione, recepisce la «sostanza» del fiscal compact, aggiungendosi alle regole già in vigore. In concreto: tutti i vincoli sono confermati, ma si focalizza maggiormente quello del debito pubblico (nostro tallone d’Achille), rispetto alla cui riduzione ogni nuovo governo deve assumere precisi impegni; le deroghe non vengono affatto estese, anzi appaiono limitate alle circostanze eccezionali e al varo di riforme strutturali con impatto positivo e diretto per il bilancio statale; i controlli su quest’ultimo, sono rafforzati, anche se in un’ottica di auto-responsabilizzazione, sotto la vigilanza di organismi indipendenti e con l’ausilio di correttivi automatici qualora non si rispettino gli obiettivi. Nel complesso, i punti di domanda non mancano di certo: occorrerà chiarirli discutendo a fondo e, con l’occasione, chiedere di introdurre precetti procedurali stringenti per sanzionare altri fattori disequilibranti, come il prolungato surplus commerciale di certi paesi negli scambi intracomunitari.
Con un’altra misura si mira a trasformare il Meccanismo europeo di stabilità (Mes/Esm) in un Fondo monetario europeo che, oltre ad aiutare gli Stati membri a rischio d’insolvenza (l’attuale funzione), operi quale rete di sicurezza pubblica al Fondo di risoluzione unico per l’assistenza alle banche in dissesto. Intenti positivi, ma andrebbe vagliata anche l’opzione — complementare o alternativa — di avvalersi del Mes per raccogliere sui mercati risorse per sostenere gli investimenti nelle aree dell’Unione dove la ripresa non c’è o è carente; così alleviando il costo per i singoli paesi. Peraltro, in ambito Ue lo sviluppo delle regioni in difficoltà è incardinato sui fondi strutturali; i medesimi che una terza misura del pacchetto della Commissione rende, in parte, destinabili a quei governi nazionali che richiedano un’assistenza tecnica per effettuare riforme strutturali. Un’eventualità inedita che incide nel vivo dei nostri interessi (specie quelli del Mezzogiorno), perché l’entrata maggiore che riceviamo dal bilancio Ue viene proprio dai fondi strutturali. È fondamentale approfondire come funzionerebbe un siffatto storno e scongiurare ripercussioni negative.
La Commissione fa bene a pensare a nuovi strumenti e risorse; in particolare, l’Eurozona ne ha bisogno, contro gli shock economici asimmetrici che ne minano la stabilità. Per questo motivo è un peccato che nelle proposte non si riprenda quanto indicava, la cosiddetta Relazione dei quattro presidenti circa il conferimento di una vera capacità di bilancio all’Eurozona, con la possibilità di emettere titoli di debito europeo per finanziarsi sul mercato e non solo attraverso i versamenti degli Stati. Fra l’altro, proprio la creazione e la gestione di un simile bilancio, più consistente e versatile, giustificherebbe l’effettiva utilità della quarta misura della Commissione che prospetta la nomina di un ministro dell’Economia europeo; mentre, così come viene adesso disegnato, assomiglia soprattutto a un non indispensabile controllore e regolatore potenziato di ciò che fanno o cercano di fare i suoi colleghi nei singoli Stati.