A fronte di rialzi dei tassi molto rapidi, le condizioni finanziarie sono ancora espansive: i mercati hanno sottovalutato la determinazione dei banchieri centrali
Pausa? I mercati sono abbastanza convinti che la Federal reserve non alzerà i tassi nella sua riunione di giugno. La banca centrale statunitense ha infatti un’opportunità da cogliere. Può avvertire i mercati della necessità di una stretta monetaria durature ed, eventualmente, anche più incisiva, attraverso le proiezioni del secondo trimestre: a giugno aveva immaginato di portare il costo ufficiale del credito al 5-5,25%, il livello attuale, e di poter scendere attorno al 4,25% a fine 2024. Ogni deviazione da questo percorso potrebbe segnalare l’intenzione di stringere ancora, lasciandosi però il tempo di verificare cosa accade davvero sui mercati e nell’economia reale.
Condizioni finanziarie ancora espansive?
Qualcosa, infatti, non va nel verso giusto. I dati sui prezzi, che peraltro segnalano una core inflation più alta dell’inflazione complessiva, non sono al momento molto significativi, dappertutto. Non solo perché si riferiscono al passato: domina un effetto puramente “aritmetico”, il base effect, che riduce i tassi annui di crescita (l’anno scorso gli indici erano già in rapida corsa e molto elevati) Occorrerà aspettare perché questo fenomeno si attenui. Le condizioni finanziarie, misurate dall’indice di Chicago – che riassume più di cento indicatori lungo tutta la cinghia di trasmissione della politica monetaria – sono però ancora in territorio espansivo, e non riesce a superare quota zero che, per definizione, indica condizioni finanziarie neutrali.
Mercati di nuovo in rialzo
Non è una sorpresa, ovviamente, il fatto che la politica monetaria abbia effetti in un tempo lungo e variabile. Il presidente della Fed, Jerome Powell, lo ha sottolineato più volte. Negli Stati Uniti, come altro, la questione sembra però un po’ più complessa: i mercati non hanno del tutto compreso le intenzioni delle banche centrali. Le aspettative di lungo periodo restano ancorate – anche se quelle a un anno restano al di sopra del 4% – ma la volontà di riportare l’inflazione al 2% viene interpretata come un intento condizionato dal raggiungimento di altri due obiettivi: la stabilità finanziaria e un soft landing. L’indice Whilshire 5000, il più osservato dalla Fed perché il più completo, ha “corretto” gli eccessi del passato, ma è tornato su un sentiero di lungo periodo (una banale tendenza lineare è persino più precisa di una loess), orientato a un tormentato rialzo.
Si ferma la flessione dei prezzi delle case
Anche l’andamento del prezzo delle case, per quanto i dati siano fermi a marzo, segna una timidissima inversione di tendenza rispetto a una flessione appena più pronunciata. Il settore è piuttosto sensibile all’andamento dei tassi di interesse e ci si aspetterebbe una risposta più pronta delle quotazioni immobiliari ai rialzi.
Mercato del lavoro ancora robusto
La Fed dà ovviamente molta importanza anche all’occupazione. In una fase di alta inflazione, un mercato del lavoro brillante diventa paradossalmente un segnale negativo. In questa fase, oltretutto, la lettura dei dati è complicata dalla compresenza di fattori non legati al semplice gioco ciclico della domanda e dell’offerta, ma a elementi di carattere strutturale, come le diverse preferenze dei lavoratori. La carenza, sul lato dell’offerta, di alcune competenze – anche “insospettabili” come quelle di camionisti e muratori – spinge in alto i salari anche in assenza di una maggiore domanda. Quanta parte di questi fenomeni sia aggredibile dalla politica monetaria è difficile da capire. L’occupazione è sempre robusta, e non dà segnali di rallentamento.
Salari sempre in forte crescita
I salari orari, tra risparmi ancora in eccesso, una politica fiscale generosa e tendenze strutturali del mercato del lavoro, crescono ancora velocemente, più dell’inflazione e della produttività. La frenata rispetto al passato anche recente è evidente – segno che il morso dei prezzi più alti e della crisi si sente – ma i ritmi restano elevati rispetto a una media di lungo periodo del 3%.
Un errore dei mercati o un errore della Fed?
Il rischio è allora che gli sforzi fatti finora dalla Federal reserve non siano sufficienti. È un rischio che fa emergere due ipotesi. La prima, fondata sull’andamento delle quotazioni, è quella dell’errore tecnico: la scelta di rinunciare alla forward guidance ha portato a una sottovalutazione, da parte dei mercati, della reale determinazione della Fed. La seconda, che guarda piuttosto all’economia reale, è quella dell’errore politico: la Fed è meno determinata di quanto dovrebbe, preoccupata della stabilità finanziaria e del rallentamento dell’economia. Le proiezioni sui tassi, le parole di Powell saranno importanti come raramente in passato, in questa situazione.