Fonte: Corriere della Sera
di Dario di Vico
I partiti avversari hanno scelto i due responsabili per le politiche economiche. I dem puntano su Felice ( critico verso la sinistra riformista), il Carroccio sugli euroscettici
La scelta del responsabile economico di un partito è una cartina di tornasole utile per capirne indirizzi di fondo e posizionamento. E il caso vuole che negli stessi giorni i due maggiori partiti, la Lega e il Pd, abbiano fornito importanti indicazioni in materia.
Cominciamo dai dem: nell’ultima direzione Nicola Zingaretti ha annunciato la nomina a responsabile economico di Emanuele Felice, classe 1977, ordinario di Politica economica all’Università di Pescara. Fuori dalla politica attiva dai tempi del liceo, Felice è un esponente di punta del neo-meridionalismo ed è molto vicino al ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, con il quale condivide una linea decisamente critica verso la sinistra riformista e proposte come l’imposta progressiva sui patrimoni e il «ripristino delle garanzie nel mercato del lavoro». Ma al di là dei singoli temi la nomina di Felice segnala da parte di Zingaretti un’operazione più ambiziosa: tentare di ricostruire attorno al Pd una galassia di intellettuali focalizzati su Sud e giustizia sociale che veda coinvolto anche l’ex ministro Fabrizio Barca. Quanto questa scelta riesca a propiziare il dialogo con le Sardine e serva a competere con i 5 Stelle sullo stesso perimetro di gioco lo vedremo con il tempo.
Di segno opposto l’input arrivato da Matteo Salvini. Il leader leghista, intervistato dalla Stampa, ha sciolto la riserva a modo suo: ha fatto sapere che non designerà un unico responsabile economico ma si avvarrà di sette-esperti-sette (Bitonci, Bagnai, Borghi, Garavaglia, Siri, Galli e Guidesi). Ciascuno presiederà singole specializzazioni come il fisco o le politiche europee, ma va da sé che i nomi che più «colorano» il pacchetto di mischia salviniano siano ancora una volta i due parlamentari No Euro, Claudio Borghi e Alberto Bagnai (docente anche lui a Pescara). Il segnale che ne viene fuori per le cancellerie europee e per l’area dei moderati del centrodestra è chiaro: per ora nessuna autocritica sulle vecchie parole d’ordine sull’euro e sulla Brexit. E quindi se c’è un minimo comune denominatore tra le scelte del Pd e della Lega è che gli esponenti pro-mercato di entrambi i partiti subiscono uno stop.