22 Novembre 2024

La costruzione di un fronte alternativo alla destra (e competitivo con essa nel caso di elezioni anticipate) richiederebbe una sapienza e una lungimiranza ad oggi non riscontrabili in nessuna delle persone preposte all’impresa

Adue mesi dalle primarie che elevarono Elly Schlein al vertice del Pd, si può tracciare un bilancio più che positivo dei sessanta giorni trascorsi. Nei sondaggi il partito è tornato a collocarsi stabilmente sopra il 20 per cento e ha lasciato il M5S dietro di cinque punti. La nuova segreteria si mostra assai abile nel rintuzzare la maggioranza, producendo ogni giorno polemiche nuove di zecca. Talvolta anche due o tre in un’unica giornata. Né i dem si mostrano preoccupati dalle insidiose iniziative provenienti da sinistra, neanche dai referendum contro le armi a Zelensky o l’assai pubblicizzata «Staffetta dell’Umanità» di Michele Santoro per «unire l’Italia contro la guerra», per «riaccendere la speranza» e per «camminare insieme da Aosta a Lampedusa». Come se il nuovo gruppo dirigente del Pd considerasse tali iniziative fuori tempo rispetto a un anno fa quando invece Enrico Letta fu impensierito da quel che si muoveva sul fronte pacifista.
Un grande tonico per l’esordio di Schlein sono state le schermaglie delle settimane che hanno preceduto il 25 aprile. Curiosamente, però, in Europa furono presi più sul serio, ventinove anni fa, i rischi di deriva autoritaria del primo Berlusconi, di quanto sia accaduto adesso con il debutto di Giorgia Meloni. Fuori dai nostri confini, l’allarme fascismo è stato scarso. Anche nel mondo delle arti che pure nel 1994 si mostrò assai incline a questo genere di apprensione.
In ogni caso il Pd schleiniano mostra di avere fiato — e, a quanto pare, sostegno tra i propri elettori — talché potrebbe andare avanti ancora per mesi (magari per anni) nelle polemiche quotidiane che traggono spunto da voci dal sen fuggite ad esponenti della destra. A volte si ha quasi l’impressione che quelle «gaffe» governative siano intenzionali, parole gettate lì da navigati rappresentanti della maggioranza nella certezza che qualcuno abboccherà e ne seguirà un battibecco. Battibecco destinato a rinfrancare i settori dei due schieramenti più sensibili alle ragioni della propria identità.
Rassegniamoci perciò: le cose andranno avanti così. A lungo. Queste baruffe quotidiane sono un tonico per la sinistra e la destra non sembra darsene pena. D’altra parte, per la sinistra sarebbe terribilmente più complicato indicare una prospettiva diversa. Ad esempio, una via credibile per tornare al governo sospinti da un voto che consenta alla sinistra di conquistare la maggioranza nei due rami del Parlamento.
Nel decennio scorso, la destra, pur travagliata da un’infinità di disavventure, fu in grado di mantenere un proprio impianto di struttura (in fin dei conti quello berlusconiano del ’94) che le ha permesso al momento opportuno di serrare i ranghi e vincere le elezioni. Se perdeva pezzi, altri ne guadagnava. Con il partito di un immarcescibile Berlusconi lì a garantire nei confronti dell’Europa e quello di Giorgia Meloni che, dall’opposizione, era stato capace di intercettare (assorbendole) le perdite della Lega di Salvini. E di conquistarsi, in virtù dell’essersi schierato dalla parte della Nato e dell’Ucraina (oltreché dei buoni uffici di Mario Draghi), un’immagine tutto sommato rassicurante per i Paesi d’oltreconfine.
L’attuale sinistra invece appare destrutturata come mai lo è stata nella sua lunga storia. Ed è probabilmente questa circostanza che — nelle rare occasioni in cui è costretta a rispondere a delle domande in pubblico — fa scivolare Schlein nei gorghi di nebbiose fumisterie che le consentono di affrontare in qualche modo l’imbarazzante situazione in cui viene a trovarsi chi deve pronunciare dei chiari «sì» o dei netti «no». Cosa per lei al momento impossibile. La costruzione di un fronte alternativo alla destra (e competitivo con essa nel caso di elezioni anticipate) richiederebbe una sapienza e una lungimiranza ad oggi non riscontrabili in nessuna delle persone preposte all’impresa. Può darsi che piani per affrontare un’eventuale emergenza esistano e che siano stati per un qualche motivo secretati. Ma è anche possibile che gli stati maggiori dell’opposizione non si siano neanche posti un tal genere di problema. E che abbiano deciso di affrontarlo tra quattro anni nell’immediata viglia delle elezioni politiche. Nel frattempo, Pd e M5S si occuperanno esclusivamente della competizione tra loro. Oggi per i sondaggi, domani per le europee del 2024. Il dopodomani non è contemplato.
Una condotta assai poco previdente. In primo luogo, perché — a differenza di quel che fu per la destra nello scorso decennio — non mette nel conto l’imprevisto. In secondo luogo, perché questo modo inconcludentemente ossessivo di guardare alle relazioni con il M5S lascia del tutto sguarnito il terreno riformista peraltro terremotato dalla rottura tra Calenda e Renzi. Per la prima volta nella storia della sinistra italiana degli ultimi settantacinque anni, a guardare in direzione del centro ci sono solo dei cani sciolti. Pochissimi oltretutto. Qualcuno, nel frattempo, abbandona silenziosamente la nave. A parte Elly Schlein e i suoi adepti, i dirigenti che già avevano avuto un ruolo nel Pd, si dedicano — come s’è detto — esclusivamente ai rapporti con Giuseppe Conte. Non ci stupiremmo, a questo punto, se fosse proprio Conte, con una delle piroette in cui si è specializzato nella passata legislatura, ad andare a occupare lo spazio centrista lasciato scoperto da ex comunisti ed ex democristiani. La capacità di dialogare con settori della destra non gli manca. Tra l’altro la storia della Prima e della Seconda Repubblica insegna che in quell’area centrista voti, percentuali ed eletti valgono più del doppio di quanto contino ai lati estremi del Parlamento. Il 15% di cui dispone il M5S è una miniera d’oro. E, se ben impiegato, potrebbe produrre esiti ad oggi inimmaginabili.

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