23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Franchi

Il punto è se cercare di recuperare gli elettori di sinistra o lasciarsi alle spalle la vecchia storia. Ma il dubbio è se si è tornati di nuovo a Ds e Margherita


Antonio Polito (Corriere, 19 settembre) ha sollevato sulle sorti del Pd questioni importanti, che meritano di essere approfondite e discusse. E ha messo a fuoco un punto politico che i protagonisti, impegnati in un tragicomico balletto di proposte di autoscioglimento avanzate e ritirate, nonché di cene convocate e sconvocate, non hanno il coraggio di enunciare. C’è, nonostante tutto, un futuro per il Pd? Per tentare una risposta, occorre anzitutto prendere atto che l’ipotesi stessa su cui il Pd nacque, dieci e passa anni fa, è andata in fumo da un pezzo. Forse questo partito è nato troppo tardi, affrettando un fallimento (quello del governo dell’Unione e della maggioranza «da Mastella a Bertinotti», capeggiati da Romano Prodi) e non offrendo una speranza di vittoria, nonostante il tentativo di Walter Veltroni di fondarlo su una visione del mondo. Forse non è mai nato davvero come casa comune del centrosinistra, ma solo come frutto di una fusione a freddo tra i post comunisti dei Ds e i post democristiani (non solo di sinistra) della Margherita, destinata a produrre, parola di Massimo D’Alema, un «amalgama mal riuscito». Sicuramente, e su questo Polito ha del tutto ragione, è nato per così dire a tempo scaduto, tardo blairista e tardo clintoniano nell’immediata vigilia di una crisi finanziaria, economica e sociale destinata a togliere spazio, identità e voti a riformismi e a riformisti, o se si preferisce a neoliberalismi e a neoliberali, che ragionavano in termini di società affluente. In ogni caso, ha smesso di smuovere passioni, entusiasmi e consensi un minuto dopo le elezioni del 2008, perse, sì, ma con un 37 e mezzo per cento, più di 14 milioni di voti, che oggi sembra appartenere, e in effetti appartiene, a un altro tempo e a un altro mondo.
I tentativi di rianimarlo e di restituirgli un senso e una prospettiva, la «ditta» di Pierluigi Bersani come il partito personale di Matteo Renzi, sono falliti, il secondo più fragorosamente del primo. Così che il Pd si ritrova davanti, ma stavolta ridotto a un passo dalla marginalità politica, a qualcosa di non troppo dissimile dai contrasti che a inizio secolo ne rallentarono la nascita, e poi ne resero claudicante l’incedere. Caso più unico che raro nella storia dei partiti politici, non si è mai impegnato, dopo una sconfitta storica, in qualcosa di simile a un’analisi del voto, per mettere a fuoco dove, come e perché aveva perso. Al di là delle impuntature di Renzi e dei litigi nel (si fa per dire) gruppo dirigente, anche qui una ragione deve esserci. Perché è proprio sull’analisi del voto del 4 marzo, prima ancora che sul che fare in vista delle elezioni europee, che le posizioni si divaricano, o meglio, si divaricherebbero, se potessero esprimersi compiutamente.
Per dirla bruscamente. Il problema è cercare di recuperare almeno una parte di quei milioni di elettori che hanno voltato le spalle al Pd e a una sinistra nella quale non si riconoscono più, considerandola ormai non solo lontana, ma anche ostile? In questo caso, il campo di gioco, attualmente ai limiti dell’impraticabilità, è quello di una sinistra da ricostruire, da ridefinire, da cambiare: campagna lunga, e dall’esito incerto. Oppure si tratta di lasciarsi rapidamente alle spalle quel poco che resta di una vecchia storia per andare ben oltre la stessa figura politica del Pd renziano, perché in Italia e in Europa il cuore della lotta politica batte ormai altrove? E allora gli interlocutori (e soprattutto gli elettori) possibili stanno da un’altra parte, una volta si sarebbe detto al centro, tra i cosiddetti moderati, oggi diremmo tra quanti possono essere mobilitati per contrastare populismo e nazional-sovranismo: campagna lunga ed esito incerto anche qui. A chi propende per la prima ipotesi, spetterebbe l’onere di dimostrare come si fa a battere il populismo sul suo terreno senza assumerne le sembianze e diventarne la ruota di scorta. A chi coltiva la seconda, più vicina all’impianto originario del partito, toccherebbe spiegare come potrebbe mai fare il Pd a recuperare, procedendo per questa via, oltre a un eventuale plauso dell’Economist, anche i voti (di popolo, di giovani, di ceti medi) che ha perduto. Certo: la scelta dell’una o dell’altra prospettiva potrebbe comportare anche una separazione, quanto consensuale è tutto da stabilire. Già si è scritto: siamo di nuovo ai Ds e alla Margherita? Può darsi che aleggi nell’aria anche un certo qual odore di naftalina. Ma, se non su questo, su cosa mai dovrebbe discutere, dilaniarsi, e all’occorrenza spaccarsi in un congresso di cui non è dato ancora sapere nemmeno la data e che, peraltro, non esiste nemmeno nello statuto del partito? Ha detto al Fatto Peppe Provenzano, il giovane economista che ha fondato la rete «Sinistra anno zero» e gira l’Italia per riscoprire, e ove possibile rianimare, la sinistra medesima: «Bisogna capire se basta un partito o se si deve prendere atto che non si può tenere insieme chi vuol fare Corbyn e chi Macron». Fare Corbyn? Fare Macron? Torna alla mente un’antica leggenda del Corriere, quella dell’editorialista che chiedeva al direttore se avrebbe preferito un fondo alla Montanelli o un fondo alla Scalfari, e si sentiva rispondere: fai te stesso, se ci riesci. Ma il problema è che, per fare se stessi, occorre prima di tutto esserci. Il Pd non c’è, da molto prima del 4 marzo 2018. Per questo prova a esorcizzare la questione, o almeno a tenerla lontana, sullo sfondo, nella speranza (vana) che perda consistenza.

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