22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Franco

Il pressing sull’ex premier Enrico Letta come segretario dem conferma le difficoltà di un partito bloccato dalle correnti

C’è da chiedersi se l’Assemblea prevista per domenica sia la sede appropriata per risolvere il problema delle dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd. E soprattutto, se una successione maturata in quel contesto avrebbe la legittimazione necessaria per affrontare una crisi di identità e di leadership drammatiche. Il trauma dello strappo di Zingaretti, e le motivazioni liquidatorie con le quali lo ha compiuto, pongono una questione quasi esistenziale a un partito-perno della maggioranza. Per ora, invece, tra gli insulti grevi di alcuni grillini, sembra prevalere la confusione. Ritenere che quanto succede sia figlio del governo di Mario Draghi sa di alibi: l’attuale coalizione poteva essere rivendicata dal Pd come una propria affermazione.

Contraddizioni già presenti
In realtà, le contraddizioni negli equilibri delle correnti erano già tutte presenti.
La sostituzione dell’esecutivo guidato da Giuseppe Conte ha solo accelerato il conflitto; e portato il segretario a una decisione che aggrava il caos e complica qualunque soluzione. L’idea di ricorrere a un o una «reggente» sa di risposta burocratica e d’apparato, di fatto di chiusura. Su questo sfondo, perfino la prospettiva di trovare un segretario «unitario», senza avere preparato né costruito una vera candidatura, appare un rimedio disperato e insieme improvvisato. Più di un o una leader si intravede la tentazione di trovare un velo che copra pudicamente il tribalismo; e nasconda per un po’ una conflittualità patologica, destinata a scaricarsi sulla persona prescelta non appena si ripresenteranno i problemi che hanno fatto disperare Zingaretti.

Coro singolare
L’incursione un po’ ridicola delle cosiddette «sardine» nella sede del Pd si aggiunge come emblema di una china pericolosa. Cresce il coro con il quale dai vertici del partito indicano nelle ultime ore un nome rispettato come quello dell’ex premier Enrico Letta per correggere errori trasversali e scarti improvvidi. Coro singolare, perché quando si è formato il governo Draghi, dal Partito democratico pochi hanno ipotizzato un ruolo per Letta. È inevitabile il sospetto che il progetto di cooptarlo sia un modo per uscire da una situazione imbarazzante. Ma è dubbio che possa risolvere i problemi che l’hanno creata. È come se il Pd dovesse ricorrere a un «esterno» perché il suo metodo di selezione non è più in grado di produrre figure inclusive. Il rischio che si tratti di un espediente per rinviare un ripensamento radicale della sua strategia e della sua ragione di essere, è reale. Un cambiamento superficiale servirebbe a poco, tuttavia. Senza dargli forza e strumenti per decidere e incidere, finirebbe per confermare il declino del Partito democratico e non la sua ripresa.

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