Pensioni: serve una riforma
Giovani e previdenza complementare. Sono queste le riforme strutturali su cui dovrà puntare il nuovo governo. Con particolare riguardo all’assetto del sistema, nel pieno rispetto dell’equilibrio dei conti pubblici, della sostenibilità del debito e dell’impianto contributivo del sistema. Occorrerà quindi trovare soluzioni che consentano «forme di flessibilità in uscita» (richiesta da tutte le organizzazioni sindacali) ed un «rafforzamento della previdenza complementare». Senza dimenticare «le prospettive pensionistiche delle giovani generazioni».
Pensioni in quota
La pensione «quota 100» è scaduta lo scorso 31 dicembre, la «quota 102», in vigore solo per quest’anno, scadrà il 31 dicembre 2022. Entrambe le misure possono essere utilizzate anche nel 2023 e negli anni seguenti. La normativa fissa la scadenza in questione solo per il raggiungimento dei requisiti, e non anche per la presentazione della domanda di pensione.
Incumulabilità
La pensione «quota 102» (come nel caso di «quota 100»), è incumulabile con i redditi da lavoro, dipendente o autonomo, fatta eccezione dei redditi da lavoro autonomo occasionale nel limite di 5.000 euro lordi annui. L’incumulabilità opera dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia (67 anni). Quando c’è questa incumulabilità, la pensione è sospesa nell’anno di produzione di reddito. Esempio: nel caso di redditi prodotti nei mesi dell’anno precedenti il perfezionamento del requisito d’età per la pensione di vecchiaia, la pensione è sospesa nel suddetto periodo.
Le finestre
Occorre ricordare che, sia per «quota 100», sia per «quota 102», la pensione è soggetta alla cosiddetta «finestra». Ossia la decorrenza che avviene dopo tre mesi dal raggiungimento dei requisiti.
Gli altri canali d’uscita
Al di là di come evolverà il quadro previdenziale di qui al 31 dicembre, resteranno comunque aperti altri canali di uscita anticipata. Primo fra tutti quello che consente il pensionamento con 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva (41 anni e 10 mesi per le donne) a prescindere dall’età anagrafica e senza adeguamenti all’aspettativa di vita fino al 2026. Potranno poi continuare a uscire con 41 anni di versamenti, indipendentemente dalla soglia anagrafica, i cosiddetti lavoratori «precoci», ovvero quelli in possesso di 12 mesi di contribuzione effettiva prima del 19esimo anno d’età e che si trovano in condizioni sostanzialmente simili a quelle previste per accedere all’ «ape sociale».
I costi
Il problema costi potrebbe indurre a mantenere un atteggiamento prudente, su un delicato capitolo come quello della previdenza. Stando alle simulazioni elaborate a suo tempo dall’Inps, il costo delle «promesse elettorali» sarebbe tutt’altro che trascurabile: non meno di 4 miliardi il primo anno, per arrivare a circa 10 miliardi a regime.
La rata di ottobre
Per il maxi-assegno, con cui tamponare una parte delle falle aperte negli ultimi mesi dal caro-prezzi, i pensionati dovranno attendere gennaio del 2023. Solo a quel punto i possessori di assegno Inps sapranno di quanto sarà effettivamente rivalutato il loro trattamento. Prima però i titolari di prestazioni pensionistiche potranno già attingere, almeno in parte, «agli adeguamenti», conguagli e bonus che stanno per scattare. L’aumento non si applica allo stesso modo per tutte le pensioni, ma dipenderà dalle fasce di reddito. In particolare, viene applicata la rivalutazione al: -100% dell’inflazione, ovvero in misura piena, per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo (corrispondente a 524,35 euro); -90% dell’inflazione per le pensioni comprese tra 4 e 5 volte il trattamento minimo; -75% dell’inflazione per le pensioni oltre 5 volte il trattamento minimo. Inoltre, in base a quanto stabilito dal Decreto Aiuti bis, l’aumento del 2% sarà riconosciuto qualora il trattamento pensionistico mensile sia complessivamente pari o inferiore all’importo di 2.692 euro (35mila euro l’anno). Superata questa cifra, la rivalutazione non si applicherà nemmeno con la riduzione al 75%.
La rivalutazione degli assegni
Come si traduce in pratica questa rivalutazione? Per fare un esempio pratico, una pensione di 1.000 euro al mese vedrà un aumento di 20 euro al mese. Una pensione di 2.000 euro, allo stesso modo, vedrà un aumento di 40 euro al mese. Per pensioni che vanno da 2.095,32 a 2.619,15 euro, l’importo della rivalutazione è ridotto al 90%. Quindi, una pensione di 2.500 euro al mese vedrà un aumento di 50 euro al mese, mentre una pensione di 2.692 euro vedrà la rivalutazione del 2% ridotto del 75%, per cui in questo caso l’aumento sarà di 52 euro al mese. Da novembre, a questa rivalutazione si aggiungerà quella dello 0,2% a titolo di conguaglio per il 2021. L’aumento si applica «al trattamento pensionistico lordo complessivo in pagamento per ciascuna delle mensilità di ottobre, novembre e dicembre 2022, ivi inclusa la tredicesima mensilità spettante».
Giovani penalizzati
La generazione tra il 1985 e il 1987, specie coloro che lavorano in proprio come, con questo sistema pensionistico e senza possibilità di accesso a forme di pensione anticipata, dovranno attendere oltre i 70 anni per starsene a casa. Infatti, potrebbero avere accesso alla pensione di vecchiaia a 67 anni, cui va aggiunto l’incremento legato all’aspettativa di vita (si prevedono 3 anni e 10 mesi in più nel 2050) e il ritardo per la finestra, altri tre mesi