22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Pensioni e previdenza, le novità e la riforma

Salvo rinvii dell’ultima ora, l’appuntamento per la revisione del sistema pensioni è fissato per il 27 gennaio. Il confronto tra il governo e le parti sociali, finalizzato al possibile miglioramento della legge Fornero. Ad accompagnare il processo di riforma vi saranno due commissioni instituite dalla legge di Bilancio: quella sui lavori gravosi e quella sulla separazione tra previdenza e assistenza. Non solo. A partecipare ai lavori, ha affermato la ministra del lavoro, Nunzia Catalfo, in una intervista radiofonica, anche una terza commissione, formata da esperti a livello nazionale che sarà nominata entro fine mese.

In Italia a 67 anni, in Europa a 63
Previdenza e assistenza. In Europa si va in pensione a 63 anni e senza penalizzazioni. In Italia a 67 e con un sistema che per le nuove generazioni prevede come assegno al massimo la metà dell’ultimo stipendio.
Per sostenere, o addirittura migliorarle, le misure che consentono la flessibilità in uscita dal lavoro, occorre anzitutto ridurre i costi attuali, scorporando dall’Inps tutte le uscite non legate alla previdenza. Dei costi dell’assistenza deve farsi carico lo Stato.

Quota 102? In pensione a 64 anni
La posizione del governo. il modello di revisione di anticipo pensionistico allo studio del governo, vorrebbe elevare da 62 anni a 64 anni la soglia minima per lasciare il lavoro Una sorta di “Quota 102”, con una ulteriore riduzione dell’assegno pensionistico (leggi qui).
Infatti, si starebbe anche ragionando su un ricalcolo per intero delle pensioni future con l’esclusivo sistema di calcolo contributivo. Quindi totalmente in base ai contributi versati dal lavoratore, tagliando così fuori tutti coloro che hanno diversi anni da farsi considerare con il sistema il più conveniente retributivo.

La posizione dei sindacati
Un deciso no all’ipotesi di superare Quota 100 fissando in 64 anni di età il requisito anagrafico e 36 o 38 anni quello contributivo (la quota 102). Una proposta “irricevibile”. Un no senza appello anche perché, come detto, quell’idea che il governo accarezza, prevede un ricalcalo per intero delle pensioni future col contributivo (si prende in base ai contributi versati). E quindi un’implicita penalizzazione – un taglio dell’assegno -per chi ancora ricade nel sistema misto e vanta diversi versamenti, fino a 15 anni, nel più vantaggioso retributivo.
Ecco dunque la controproposta di Cgil, Cisl e Uil. Non solo per superare Quota 100, misura sperimentale che, scadendo il 31 dicembre 2021, creerebbe un altro “scalone” e allungherebbe la permanenza al lavoro di 5 e più anni dall’oggi al domani (qui l’articolo completo). Ma anche per sostituire una volta per tutte la legge Fornero.
Come? Così: in pensione dai 62 anni con almeno 20 di contributi e calcolo della pensione pro-rata. I contributi versati col “retributivo” non verrebbero quindi ricalcolati e penalizzati. Oppure 41 anni di contributi a prescindere dall’età. Con sconti per i lavori gravosi, le donne ed i giovani con carriere discontinue.

Una questione di soldi
La proposta dei sindacati di andare in pensione a partire dai 62 anni con almeno 20 di contributi e nessuna penalizzazione mette in seria difficoltà il governo. Esecutivo che per bocca del premier Giuseppe Conte, si è dichiarato pienamente disponibile ad «aprire un tavolo sulla previdenza» con le parti sociali.
Ciò, nonostante le diverse posizioni dei partiti che lo compongono: quota 100 resta secondo Nunzia Catalfo, ministro M5S del lavoro, quota 100 va subito abolita, prima della scadenza del 2021 secondo Luigi Marattin, deputato di Italiaviva.
Per farla breve, a parole tutti vogliono risolvere lo scalone di Quota 100 e riscrivere la Fornero. Ma quando si passa ai fatti il problema era ed è sempre lo stesso: i costi.
Già all’epoca del governo Gentiloni quota 41 era stata scartata perché molto costosa. Così come l’attuale controproposta del sindacato che butterebbe per aria i conti del Paese.

Il compromesso possibile
Possibile compromesso: indubbiamente si tratta di un tema molto sentito. Con lo stop a Quota 100 subito, per evitare di alimentare aspettative tra i lavoratori che nel 2021 si tradurranno in una corsa insostenibile all’uscita, a detta di Luigi Marattin, che aggiunge che «i lavori non sono tutti uguali», un operaio non può essere trattato al pari di un dirigente. Si rivedano allora l’Ape sociale, allargandola e rendendola strutturale per consentire la giusta flessibilità a chi ne ha bisogno.
Tommaso Nannicini, senatore Pd, pensa invece che un compromesso sia possibile giocando sulle quote. Il suo disegno di legge propone un’uscita a 64 anni con 20 di contributi, ma con il ricalcolo contributivo: «Se vuoi la flessibilità, la paghi», dice.
Propone anche «una super Ape rafforzata a quota 92 – 62 anni e 30 di contributi – per le fasce deboli». Oltre a «una pensione di cura per le donne con sconti contributivi per i figli o il lavoro di assistenza», e una quota di garanzia per i giovani. Praticamente, un ritorno all’integrazione al trattamento minimo oggi negato alle pensioni «contributive».

I numeri di Quota 100
I numeri su Quota 100 forniti dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, in un’audizione nella commissione parlamentare sugli enti previdenziali, parlano chiaro. Nel 2019, sono state liquidate 150 mila pensioni, un risultato «molto inferiore a quello preventivato». Si stimavano 290 mila pensioni aggiuntive con Quota 100 nel 2019 (327 mila nel 2020 e 356 mila nel 2021) mentre ce ne sono state, appunto, la metà. Più in dettaglio, invece delle 102 mila pensioni anticipate tra i dipendenti privati ce ne sono state 74 mila, così come quelle tra i dipendenti pubblici non hanno superato le 42 mila contro le 100mila previste e quelle tra i lavoratori autonomi sono state 33 mila contro le 88 mila preventivate. Totale: 149 mila per la precisione, invece di 290 mila. Il presidente dell’Inps ha anche spiegato che il 30% di coloro che sono andati in pensione con Quota 100, quindi circa 45 mila, erano lavoratori in cassa integrazione o in mobilità, cioè che avevano perso il posto.
Questo fa capire che per più della metà dei dipendenti privati usciti prima, Quota 100 è stata una sorta di ammortizzatore sociale. Nel pubblico la misura, guardando ai numeri assoluti, sembrerebbe aver avuto meno successo. In realtà, se si considera che i dipendenti pubblici sono circa 3,2 milioni contro i 15 del settore privato, relativamente parlando Quota 100 ha riscosso più adesioni. Tanto è vero che lo stesso Tridico ha sottolineato che nel 2019, sommando i pensionamenti anticipati ordinari e quelli di Quota 100, il numero di chi ha lasciato l’ufficio pubblico senza aspettare l’età di vecchiaia è triplicato. Il presidente non lo ha detto, come rileva Enrico Marro sul Corriere del 15 gennaio, ma considerando che la relazione tecnica prevedeva una spesa di 3,8 miliardi nel 2019 (e di circa 8 negli anni successivi) si può stimare un risparmio di tra 1,5 e 2 miliardi il primo anno.

Pensioni, i numeri del 2020
Una busta paga molto leggera per i pensionati nel 2020. Il trattamento minimo è aumentato di soli 2,06 euro. Il modesto incremento (più 0,4%) previsto per quest’anno è dovuto alla cosiddetta perequazione automatica, quella che una volta si chiamava scala mobile. Nel 2019 si doveva tornare alle regole originarie risalenti al 2001, non solo più favorevoli ai pensionati, ma che vedono anche applicare la rivalutazione con regole più vantaggiose. Non per un singolo scaglione in base all’importo complessivo della rendita, ma per diversi scaglioni in base alle fasce d’importo della stessa. Ma così non è stato per via della Legge di Bilancio 2019.
Una buona notizia la fornisce la manovra economica 2020 (legge n. 160/2019) la quale ha promesso che dal 2022 si tornerà al vecchio e più favorevole sistema. Al di là di questi mini-ritocchi, l’incremento mensile è contenuto per tutti: parte intorno ai 2 euro lordi per gli assegni più bassi, per poi crescere anche se non in modo continuo. In termini netti, visto gli aumenti sono comunque tassati, una pensione di 1.200 euro avrà una maggiorazione mensile di circa 4 euro, una di 1.500 intorno ai 5: al crescere dell’importo poi il beneficio si riduce un po’ sia perché l’adeguamento all’inflazione opera solo in parte sia perché si fa sentire la maggiore progressività dell’Irpef.

Le pensioni minime
Con il più 0,4%, l’importo del trattamento minimo è salito da 513,01 a 515,07 euro al mese. Salita anche per l’assegno sociale, la rendita assistenziale corrisposta agli ultrasessantacinquenni privi di altri redditi, introdotta dalla riforma Dini del 1995 in sostituzione della “vecchia” pensione sociale: passata da 457,99 a 459,83 euro al mese. Mentre la pensione sociale, ancora prevista per i titolari della stessa al 31 dicembre 1995, ha raggiunto i 378,95 euro.
Sopra il minimo. La sola novità riguarda l’aggiornamento della prima fascia cui viene riconosciuto l’aggiornamento Istat al 100%: è passata da 3 a 4 volte l’ammontare dell’importo in pagamento al 31 dicembre precedente. Pertanto, l’aumento per l’anno 2020 è così articolato:
100% (ossia più 0,40%) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia pari o inferiore a 4 volte il trattamento minimo;
77% (ossia 0,308%) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a 4 volte e pari o inferiore a 5 volte il trattamento minimo;
52% (ovvero 0,208%) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a 5 volte e pari o inferiore a 6 volte il trattamento minimo;
47% (0,188%) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a 6 volte e pari o inferiore a 8 volte il trattamento minimo;
45% (e cioè 0,18%) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a 8 volte e pari o inferiore a 9 volte il trattamento minimo;
40% (ossia 0,16%) per i trattamenti di importo complessivo superiore a quest’ultimo limite.

Invalidi e vedove
L’austerity che dalla riforma del 1995 ha imperversato in materia pensionistica, non ha risparmiato neppure gli invalidi e le vedove, le cui rendite vengono ridotte in presenza di altri redditi. Dal 1° gennaio 2020 l’assegno d’invalidità viene corrisposto:
* nella misura ridotta al 75% del suo ammontare, nel caso in cui il titolare consegua redditi da lavoro d’importo superiore a 4 volte il minimo (26.783,64 euro);
* e nella misura ridotta al 50%, nel caso in cui l’invalido che lavora percepisce una somma superiore a 5 volte il minimo (33.479,55 euro).
Ancora più difficile la situazione dei superstiti, a meno che nel nucleo familiare non vi siano figli minori, studenti o inabili. Le riduzioni, in questo caso, scattano in presenza di redditi Irpef (da lavoro e non, con esclusione del reddito della casa di abitazione) nella misura del:
* 25% qualora il reddito supera 4 volte il trattamento minimo Inps (26.783,64 euro);
* 40% quando il reddito è contenuto entro 5 volte il trattamento minimo (33.479,55 euro).
* 50% quando il reddito supera 5 volte il trattamento minimo (33.479,55 euro).
È come dire che se la vedova percepisce uno stipendio o una propria pensione di 45 milioni annui lordi, della reversibilità incassa solo il 30, anziché il 60%.

Netto pensionabile
Sia pure “sfondato” dalla finanziaria del 1988, il “plafond” da considerare ai fini del calcolo delle pensioni continua ad esistere nella sua forma che possiamo definire di base, soglia oltre la quale si applicano aliquote di rendimento ridotte rispetto al 2%. Con la legge di riforma del Tfr (n.297/1982) è stato infatti introdotto il principio secondo cui il limite della retribuzione pensionabile debba essere adeguato annualmente seguendo la disciplina della perequazione automatica prevista per le pensioni. Maggiorando il valore utile per il 2019 dello 0,4%, il “tetto” 2020 è salito quindi a 47.332 euro. Pertanto, le fasce di retribuzione annua da considerare per il calcolo delle rendite con decorrenza 2020, riferite alle anzianità maturate a tutto il 31 dicembre 1992 (c.d. quota A) vanno agganciate alle seguenti aliquote di rendimento:
•al 2% della retribuzione annua pensionabile sino a 47.332,00 euro (tetto di base per il 2020);
•all’1,5% per la fascia eccedente il 33%, ossia per la quota di retribuzione compresa tra 47.332,00 e 62.951,56 euro;
•all’1,25% per la fascia compresa tra il, 33 ed il 66%, ossia per la quota compresa tra 62.951,56 e 78.571,12 euro;
•all’1%, infine, per l’ulteriore fascia di retribuzione annua pensionabile eccedente il 66%, ossia per l’eventuale quota eccedente 78.571,12 euro.
Se invece si tratta di retribuzioni riferite a contributi versati dal 1° gennaio 1993 al 31 dicembre 2011 (quota B) si avrà:
•1,6%, per ogni anno di contribuzione, della fascia eccedente il 33% del “tetto”, ossia per la quota di retribuzione compresa tra 47.332,00 e 62.951,56 euro;
•1,35%, per ogni anno di contribuzione, della fascia compresa tra il 33 e il 66% eccedente il “tetto”, ossia per la quota compresa tra 62.951,56 e 78.571,12 euro;
•1,10%, per ogni anno di contribuzione, della fascia compresa tra il 66 e il 90% eccedente il “tetto”, ossia per la quota compresa tra 78.571,12 e 89.930,80 euro;
•0,90%, per ogni anno di contribuzione, della fascia eccedente il 90% del “tetto” (eccedente 89.930,80 euro).

La quota C
In seguito all’ulteriore riordino (riforma Fornero, legge n.214/2011), per le pensioni con decorrenza dal 1°gennaio 2012 in poi, il calcolo della rendita deve tener conto anche di una ulteriore quota (C), riferita all’anzianità acquisita successivamente al 31 dicembre 2011. La citata normativa ha infatti introdotto il criterio di calcolo contributivo per tutti, compresi coloro che potevano contare su 18 anni di versamenti al 31 dicembre 1995, i quali beneficiavano del solo (e più favorevole) criterio retributivo.

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