Fonte: La Stampa
di Michele di Branco
I fondi bilaterali possono finanziare per tre anni la contribuzione mancante e favorire il turn-over
Chiamatela quota 97. Oppure quota 100 meno 3, se preferite. Il governo si prepara a tradurre in atti concreti, attraverso un decreto da emanare entro gennaio, la modifica della legge Fornero consentendo a centinaia di migliaia di italiani di andare a riposo in anticipo rispetto alla riforma messa in piedi nel 2011 dal governo Monti per ridurre la spesa previdenziale. Com’è noto, dal 2019 viene offerta la possibilità di lasciare il lavoro con 62 anni di età e 38 di contributi, in via sperimentale, e solo per tre anni. Dopo di che il meccanismo dovrebbe essere superato dalla riduzione a 41 del requisito contributivo per la pensione anticipata, già oggi in vigore. Chiaro l’obiettivo: liberare lavoratori prossimi alla meta ma non ancora al traguardo e consentire così il ricambio generazionale negli uffici, nella pubblica amministrazione e nelle fabbriche.
Il problema è che quest’ultima parte dello schema che ha in testa il governo non è affatto garantito, anzi. E così, nei ragionamenti di Palazzo Chigi, prende quota l’idea di dare una spinta a questo maxi turn-over attraverso un paio di mosse.
Le mosse del governo
La prima, in deroga appunto alla pietra fondante di Quota 100, contempla anche la possibilità, per i fondi di solidarietà bilaterali gestiti da imprese e sindacati, di finanziare volontariamente la contribuzione mancante per arrivare a quota 100, con uno scivolo aggiuntivo fino a 3 anni. In questo modo, nei casi limite, un lavoratore potrebbe andare in pensione con 62 anni di età e 35 di contributi, oppure a 59 anni e 38 di contributi. Le combinazioni possibili sarebbero decine ma tutte, senza alcuna eccezione, dovrebbero rispettare un principio: incentivare un individuo che, nell’arco di tre anni, sarebbe comunque destinato a raggiungere Quota 100 con le proprie forze. Altra condizione, fondamentale: lasciando libero il proprio dipendente l’azienda prenderebbe l’impegno di assumere al suo posto un altro lavoratore o di stabilizzare un precario già presente nella pianta organica. Questo schema, ovviamente, non avrebbe alcun costo a carico delle casse dello Stato.
Il ruolo di Cdp
Il secondo pezzo di questa strategia prevede, invece, con il coinvolgimento di Cassa depositi e prestiti, società controllata dal Tesoro, uno sgravio contributivo, collegato a un apposito fondo di garanzia, per incentivare anche in questo caso il reclutamento di lavoratori all’interno di strutture aziendali interessate da massicci esodi previdenziali. Favorire il ricambio nei luoghi di lavoro, peraltro, appare piuttosto importante alla luce delle previsioni. Quota 100, che prevede una copertura di 3,97 miliardi nel 2019, che salgono a 8 nel 2020-21, interessa infatti una platea potenziale di 315 mila lavoratori di cui circa il 40% (123 mila) nel pubblico impiego. Un’uscita di massa che potrebbe mandare in tilt, soprattutto nello Stato, diverse strutture amministrative. Proprio per questa ragione peraltro il governo sta predisponendo meccanismi piuttosto rigidi. Infatti, se i dipendenti delle aziende private potranno uscire, da aprile, attraverso una finestra di tre mesi tra il momento in cui vengono maturati i requisiti e quello in cui effettivamente si può lasciare il lavoro, per gli statali la finestra sarà raddoppiata fino a sei mesi. Il che vuol dire, in buona sostanza, che gli statali più rapidi a salire a bordo di Quota 100 saranno coloro che hanno maturato i requisiti a dicembre 2018. I quali dovranno comunque attendere luglio. Se non addirittura ottobre perchè se le domande di pensionamento anticipato dovessero essere eccessive, le finestre potranno essere posticipate di altri tre mesi.