19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

 

di Antonio Armellini

Il problema è che spesso non si può parlare di una politica estera comune, perché non sono comuni gli obiettivi


Il ritorno di fiamma della difesa europea ha riportato la dimensione politica al centro del discorso sull’Ue. Come ha ricordato Ernesto Galli della Loggia, la costruzione dell’Europa mosse i primi passi proprio dalla politica di difesa: solo dopo l’affondamento della Ced (la Comunità Europea di Difesa) nel 1954 ad opera della Francia venne presa la via, indicata da Jean Monnet, di partire da un mercato comune per arrivare a un’Europa politicamente integrata e sovranazionale. Pesarono allora il retroterra nazionalista e le ambizioni egemoniche che da sempre caratterizzano la politica francese, ma la Ced non nacque perché non si trovò un punto di mediazione efficace sugli strumenti di controllo di un progetto che, in astratto, tutti convenivano avrebbe dato a un’Europa appena uscita dalla guerra ben altra voce. La crisi afghana ha posto in maniera ultimativa all’Ue il tema di come darsi una dimensione politica che rifletta appieno la forza della sua integrazione avanzata e le dia una capacità autonoma di difesa, come hanno sottolineato sia il presidente Mattarella che Ursula von der Leyen. A Ventisette oggi il confronto prima che sugli strumenti verte sugli obiettivi della difesa europea, ma rimane il rischio di finire nelle stesse trappole.
Non che non siamo mancati gli sforzi per dare vita ad un impianto condiviso. Un fiorire di acronimi — Pesc, Pesd, Pesco — ha caratterizzato le strutture via via pensate di coordinamento e gestione politica, mentre sul piano militare si è dato vita a forze di reazione rapida e strutture di comando integrato. Tutto è però rimasto largamente sulla carta; in alcuni casi, dove individuare un interesse comune era relativamente facile, l’Europa ha potuto farsi sentire, ma laddove entravano in gioco interessi fondamentali, come in Libia nel 2011 con la caduta di Gheddafi, è rimasta forzatamente muta.
Perché di difesa comune non si può parlare senza una politica estera parimenti comune; la seconda è anzi la premessa necessaria della prima. Gli appelli al «quando» sono giustissimi: la difesa europea è indispensabile adesso, ma sul «come» si resta nel generico e nelle misure parziali. Il punto di partenza è che a Ventisette non vi è una visione di politica estera che consente una percezione condivisa della minaccia: le differenze sono tutte legittime, ma sono qualitativamente e non quantitativamente diverse e pertanto non sovrapponibili. Le cosiddette «cooperazioni rafforzate», fra Paesi via via interessati a specifiche iniziative, sono state uno strumento utile ma non sufficiente. Si basano sul presupposto che le modalità e i tempi possono essere diversi ma l’obiettivo rimane lo stesso, all’interno di un unico processo decisionale. Mentre qui è proprio l’obiettivo ad essere diverso.
La difesa europea richiede stanziamenti finanziari importanti, un mandato non solo di soft power della costruzione di scuole e ponti, ma di proiezione di potenza anche armata, che operi in base di decisioni a maggioranza obbligatorie anche per chi si esprima in senso contrario: sarebbe bene intanto spiegarlo alla nostra opinione pubblica. Se una politica di difesa comune per tutti i Ventisette non è al momento realizzabile, come venirne fuori? Scomponendo l’Unione Europea per renderla al tempo una e flessibile.
Non so se un nucleo fatto di Germania, Francia, Italia, Spagna e forse Benelux e qualche altro potrebbe funzionare ad avere una capacità propulsiva, ma quello che credo di poter dire è che sacrificarsi sull’altare dei Ventisette vorrebbe dire continuare a crogiolarsi di fallimento in fallimento.
Stato di diritto, economia di mercato, libertà di movimento e diritto della persona sono i pilastri del «recinto di civiltà» che rappresenta il tessuto connettivo comune della solidarietà europea. Deve rappresentare una frontiera invalicabile (anche per la Polonia di Duda o l’Ungheria di Orbán), ma al suo interno devono esserci non solo geometrie o cerchi intorno a un unico obiettivo, bensì una molteplicità di percorsi con cui perseguire in autonomia obiettivi diversi, senza esclusioni preconcette. Ci vuole, insomma, un’Europa fatta di «più Europe», dotata di una flessibilità che permetta di svilupparne le specificità salvaguardando l’unità di fondo.
Il tabù dell’inviolabilità dei Trattati è un controsenso e sbaglia chi dice che toccarli rischierebbe di accentuarne la fragilità. È vero il contrario: senza una reale flessibilità multilivello l’Ue rischia di morire, o comunque di diventare qualcosa di diverso. Lo strumento per farlo ci sarebbe ed è quello della «Conferenza sul futuro dell’Europa», che sarebbe dovuta servire a ridisegnare l’Ue e si è trasformata, di rinvio in rinvio, in un esercizio burocratico per aggiustare qualcosa qua e là, mentre attorno la terra brucia. Forse c’è ancora tempo per cercare di riportarla sui binari originari; sarebbe una priorità degna di un’Italia che recuperi la sua storica capacità di innovazione della politica europea.

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