19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

L’Inghilterra ha suonato la campana per tutti. La via da percorrere, ora, non è quella di volere più integrazione nel momento sbagliato. Si tratta invece di ri-legittimarsi di fronte alle attese degli elettori con misure urgenti e concrete

Tra i molti pericoli che pesano sull’Unione Europea, il più micidiale ha un nome gentile: sollievo. Le sue tossine attenuano l’allarme del dopo Brexit, placano i timori, aprono spiragli all’ottimismo. Dopotutto in Spagna gli antisistema sono stati battuti. La Borsa mostra di voler recuperare. Ieri si è svolto tranquillamente a Bruxelles il primo vertice dei Ventisette, senza la Gran Bretagna. Il premier scozzese ha confermato a Bruxelles che Edimburgo vuole restare europea. E quanto alle contorsioni degli inglesi, prima o poi si troverà il modo di perfezionare un divorzio che non piace a chi lo ha voluto.
C’è qualcosa di vero, in questa ricetta consolatoria. Ma se si prova a guardare avanti, allora emerge una formidabile dose di inadeguatezza e di cecità. Dov’è la forte reazione politica che gli europei continentali avevano più volte promesso in caso di Brexit? Dov’è l’«immediato rilancio» dell’Unione? Se i danni sono per ora circoscritti lo dobbiamo alle misure di protezione finanziaria predisposte dalla Bce, non certo all’impegno dei leader politici europei. I quali, seguendo una Merkel attendista, hanno preso tempo rinviando a settembre l’annunciata riscossa.
Errore grave, perché sarà proprio il tempo a decidere le sorti dell’Europa. Nel marzo 2017 si vota in Olanda, dove gli euroscettici arrabbiati di Geert Wilders risultano favoriti. E prima della fine di maggio si vota per scegliere il nuovo presidente in Francia, dove il Front National di Marine Le Pen continua a guidare i sondaggi. Una coppia che dovrebbe provocare qualche brivido, visto che nel 2005 furono proprio la Francia e l’Olanda, in quest’ordine, a silurare con l’arma del referendum il progetto di trattato costituzionale europeo. E invece i passi felpati dell’Europa denunciano indifferenza, come se la storia e il calendario non esistessero.
Calcolando che luglio e agosto contano al massimo per uno, la Ue dispone di sette mesi prima del test più insidioso, quello olandese. Sette mesi per adottare e rendere percepibili provvedimenti capaci di raggiungere la massa degli elettori. Sette mesi per inviare ai popoli europei messaggi nuovi e forti che possano riaccendere almeno la speranza nei confronti dell’Europa là dove oggi prevalgono la delusione e la rabbia. È diffusa ben oltre la Gran Bretagna la voglia di identità e di frontiere. La globalizzazione, anche se ha molto aiutato i Paesi emergenti, viene percepita da parti importanti delle società occidentali come un vantaggio per le élite e per la grande finanza che ha spodestato la politica a scapito della classe media. La disoccupazione che non scende produce voglia di tornare al «prima», e alimenta la paura dei fenomeni migratori. Stragi ripetute come quella che ha nuovamente colpito Istanbul obbligano a prendere atto di una insicurezza diffusa.A questo crescente «populismo», se proprio vogliamo chiamarlo così, l’Europa non può più rispondere con i compromessi al ribasso. L’Inghilterra ha suonato la campana per tutti malgrado le sue peculiarità, e l’Europa si scopre oggi in rotta di collisione con la democrazia delle urne. La via da percorrere, ora, non è quella di volere più integrazione nel momento sbagliato. Si tratta invece di ri-legittimarsi di fronte alle attese degli elettori con misure urgenti e concrete, come la garanzia sui depositi bancari (l’Italia ci sta provando e ieri Renzi ha dovuto sentirsi dire dalla Merkel che «non si possono cambiare le regole ogni due anni»), la creazione di nuovi argini ai flussi migratori con la polizia di frontiera europea, un consenso reale per spingere la crescita, l’adozione di più efficaci accordi per la sicurezza anche fuori dai confini europei. E la creazione di vantaggi comuni, modello Erasmus.
Il tempo stringe, eppure l’Ue non sembra avere fretta. E rimanda, invece di creare subito il binario della controffensiva politica accanto a quello del confronto procedurale con Londra. Forse il rinvio è preferibile alla constatazione delle divisioni, al riconoscimento che è troppo tardi per recuperare gli umori divorzisti? Speriamo di no, perché una resa non piacerebbe agli elettori olandesi e francesi.

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