Fonte: Corriere della Sera
di Salvatore Rossi
C’è di nuovo fame di sviluppo e le politiche dell’Unione devono progettare il futuro con soluzioni migliori di quelle solo nazionali
Ci chiediamo se l’Europa sia da distruggere, da cambiare o vada bene così com’è. Ce lo chiediamo noi italiani e se lo chiedono, anche se forse con minor virulenza, i tedeschi, i francesi e gli altri popoli che hanno messo mano negli anni alla costruzione europea. Giusta domanda, che andrebbe sempre posta a proposito di qualunque costruzione, non foss’altro che per saggiarne la ragion d’essere e la resistenza all’usura del tempo. Ma non ci stiamo invece chiedendo in che modo l’edificio sia venuto su, con quale tecnica costruttiva e se per caso è questa che vada cambiata. Una domanda apparentemente secondaria, eppure, credo, decisiva in questa fase storica. Cerco di spiegare perché.
L’Europa sotto i nostri occhi è una costruzione essenzialmente economico-finanziaria, frutto di una scelta, non di una necessità storica. Erano troppo recenti le ferite dell’inimicizia secolare fra i popoli europei per centrare subito l’obiettivo dell’unione politica, originariamente stabilito dai padri fondatori. Quindi si scelse di passare per le tasche dei cittadini anziché per i loro cuori, facendo gradualmente avanzare la costruzione sul terreno dell’economia, della produzione di beni e servizi, del commercio, infine della finanza e delle monete. D’altro canto le distruzioni della guerra avevano portato fame di sviluppo economico, in molti cittadini fame e basta. Era opportuno che si iniziasse dall’economia. Ma era, appunto, una tecnica costruttiva: il progetto dell’edificio europeo restò inalterato, prevedendo infine come tetto l’unione politica. L’euro fu l’ultimo piano innalzato prima della Crisi globale. In quell’occasione si gettò il cuore oltre l’ostacolo, dando una moneta unica a un gruppo di economie solo in parte integrate e di Stati che restavano indipendenti. Un esperimento di rado tentato nella storia umana. Ma per almeno un decennio funzionò. Poi è arrivata la Crisi globale e, in Europa, la crisi cosiddetta dei debiti sovrani. Ed è cambiato tutto.
La crisi europea è, al fondo, una crisi di fiducia fra Paesi del Nord, che si considerano formiche dedite alla virtù del risparmio, e Paesi del Sud, che i primi considerano cicale spendaccione. Viceversa, i Paesi del Sud lamentano l’ossessione contabile e l’avarizia anche autolesionista di quelli del Nord. Chiunque abbia ragione (torti e ragioni vi sono da entrambe le parti), sta di fatto che il cemento economicista che aveva tenuto insieme i mattoni dell’edificio europeo non attacca più. Lo dimostra il caso dell’unione bancaria. Ci si è affrettati a farla, in poco più di due anni, stavolta non per far avanzare ulteriormente l’ideale europeo, ma per risolvere un problema pratico: come spezzare il circolo vizioso nei Paesi ad alto debito pubblico fra banche cariche di titoli pubblici nazionali, che potrebbero entrare in difficoltà per la perdita di valore sul mercato di quei titoli, e gli Stati emittenti che potrebbero essere chiamati a salvarle, peggiorando così la propria situazione finanziaria. L’idea era: le banche da salvare lo siano attraverso strumenti europei, non nazionali. Ma la deriva nazionalistica innescata dalla crisi dei debiti sovrani ha fatto deviare rapidamente il progetto: quelle banche non le salvi nessuno, si è alfine deciso in Europa (con l’assenso di tutti i Paesi membri); escano dal mercato e subiscano perdite i privati che vi hanno investito soldi: azionisti, obbligazionisti, financo depositanti. Era un problema nazionale? Resti nazionale, questo è il succo. Una conclusione che va contro l’empito sovranazionale dei decenni passati.
Ma alla fine dei conti conviene di più a un Paese stare in Europa o per proprio conto? Ebbene, un’evidenza schiacciante, teorica ed empirica, mostra che, in termini puramente economici, cioè di benessere materiale, conviene di gran lunga essere uniti piuttosto che separati. Conviene a tutti, ai Paesi più ricchi e a quelli meno ricchi, del Nord e del Sud. Conviene avere un mercato unico, una moneta unica. E perché allora l’insoddisfazione crescente di molti europei, i dubbi, le rivolte? Perché non si vive di sola economia, lo dico con una punta di ironico distacco avendo fatto l’economista in tutti questi anni. E non si vive di soli fatti dimostrati, ma anche, e soprattutto, di sensazioni, di impressioni, anche fallaci. Vi sono correnti di studi comportamentali che tengono conto di tutto ciò: se mi sono convinto, a torto o a ragione, che qualcuno vicino a me stia approfittando della mia arrendevolezza posso anche essere disposto a pagare un prezzo economico per allontanarmene.
Ma allora, coloro che credono nella convenienza dell’Europa, che vogliono rimanerci, devono ripensarne il cemento, la tecnica costruttiva che la tiene in piedi e la fa avanzare. L’economia, la finanza, l’euro, insomma le tasche degli europei, non bastano più. Attenzione, l’immensa sovrastruttura istituzional-giuridica che ha servito l’integrazione economica e finanziaria in Europa non va buttata via; corretta forse, non divelta. Tuttavia, non può essere lo spauracchio dei disastri che conseguirebbero a una distruzione dell’esistente a frenare gli scontenti. Va offerta loro una prospettiva che riguardi la loro intera vita. Le principali preoccupazioni riguardano oggi la sicurezza interna, il futuro del lavoro all’avanzare della tecnologia, come fronteggiare gli altri grandi Paesi del mondo, dagli Stati Uniti, alla Cina, alla Russia. Le politiche europee devono dare risposte su questi terreni, devono occuparsi più di progettare il futuro con soluzioni migliori di quelle solo nazionali che di stabilità macroeconomica, per quanto importante questa sia. Il nuovo Parlamento europeo, la nuova Commissione, devono poter ricevere dai Paesi membri contributi costruttivi, pazienti, negoziati. L’Europa ha di nuovo fame di sviluppo economico, ormai indistinguibile da quello sociale. L‘Italia ha una parte importante da giocare in questa trasformazione, non deve rinunciarvi.