Occorre lavorare affinché i settori più fragili e le componenti meno attrezzate possano davvero essere parte del percorso di sviluppo che ci aspetta
a pandemia ha ulteriormente approfondito le fratture sociali preesistenti al virus. Tutte le ricerche disponibili convergono infatti su una evidenza: quella che si va registrando è una erosione del ceto medio. Se, ad esempio, prendiamo i dati dell’ultimo rapporto Ipsos, coloro che si sentono parte del ceto medio — quello che una volta costituiva il corpus centrale della società — sono oggi appena il 27% della popolazione. Con l’8% dei cittadini che ha difficoltà per gli acquisti alimentari, il 16% per pagare le bollette; il 37% per fare fronte a una spesa imprevista.
La pandemia ha toccato tutti, ma non ha colpito alla stessa maniera. Ci sono attività e settori gravemente danneggiati a fianco di altri che sono cresciuti. In termini di reddito, c’è chi lo ha visto precipitare, chi lo ha sostanzialmente conservato e chi lo ha aumentato. La perdita di posto di lavoro (-945mila posti di lavoro tra febbraio 2020-2021, dati Istat) ha penalizzato soprattutto le donne, mentre è aumentata enormemente l’area degli inattivi (cioè gli scoraggiati che hanno smesso di cercare lavoro, +717.000 ) soprattutto tra gli under 30. Per effetto di tutto ciò, si allungano le file davanti alle mense della Caritas.
Con l’estate e l’avanzamento della campagna vaccinale è ragionevole pensare che, come prevedono tutte le istituzioni internazionali, gli indicatori economici torneranno a essere positivi. Ed è probabile che il ritorno a una certa normalità si traduca in una forte spinta nei consumi, se non altro per compensare i tanti mesi di chiusura.
Con uno sguardo un po’ più lungo, le politiche espansive prese in Europa (con il Recovery Plan) e negli Stati Uniti (con il piano di rilancio economico di Biden), oltre che i dati positivi che arrivano dalla Cina, fanno ritenere plausibile che, nonostante i tanti fattori di instabilità, davanti a noi ci possa essere una ripresa economica vigorosa. All’insegna dei due grandi driver della sostenibilità e della digitalizzazione destinati a cambiare molte cose del nostro modo di vivere, di produrre, di consumare.
Tuttavia è bene tenere presente che non tutti i gruppi sociali né tutte le imprese saranno attrezzati per cogliere il vento che spingerà avanti l’economia. Le nuove opportunità tenderanno infatti a concentrarsi in alcuni settori piuttosto che in altri; e soprattutto richiederanno un salto di livello tanto della manodopera che dei processi produttivi. Con prevedibili effetti di sostituzione di chi non sarà all’altezza. E mentre non è detto che la nuova stagione economica riesca a coinvolgere tutti i territori (in Italia si pensi al Sud e alle aree interne) saranno gli aspetti relativi all’organizzazione sociale (servizi per la famiglia e scuola in primis) a risultare decisivi per permettere ai gruppi oggi più penalizzati (donne e giovani) di poter effettivamente partecipare al rilancio atteso. La ripresa dunque ci sarà, ma non sarà automatico farne parte. Né è già scritto che i suoi benefici possano raggiungere l’intera società. Se le cose stanno così, occorre lavorare perché la tensione sociale — che fino adesso è rimasta latente — non finisca a un certo punto per riesplodere.
Il governo Draghi ha reso possibile una sorta di moratoria del malumore che si nasconde tra le pieghe della nostra società. E si traduce poi nella diffusa sfiducia nei confronti delle élite (politiche ma non solo); e soprattutto di una diffidenza molto forte nei confronti dei discorsi che parlano genericamente di crescita: l’85% degli italiani pensa che «l’economia è attrezzata per avvantaggiare i ricchi e i potenti» (Ipsos).
In questi due anni — da qui alle elezioni generali del 2023 — il Paese vuole capire se e come sia possibile riprendere la strada del futuro. Anche perché i populismi nella stagione della pandemia hanno rivelato la loro incapacità di affrontare con competenza i problemi reali di un mondo complesso.
E tuttavia, tenuto conto di quanto detto, non si può pensare che la semplice crescita economica sia di per sé sufficiente a riassorbire le fratture che attraversano la società italiana. L’aumento del Pil è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per fare in modo che la ripresa economica si traduca in coesione sociale occorrerà lavorare perché i settori più fragili e le componenti meno attrezzate possono davvero essere parte del percorso di sviluppo che ci aspetta.
Un tale obiettivo ha bisogno di due piani di intervento. Il primo riguarda il tema della formazione e dell’innalzamento del livello tecnologico. Per riassorbire il ritardo accumulato, occorre un piano di accompagnamento molto deciso. Piano che sta tra le righe delle bozze del Pnnr ma che deve essere ancora più chiaramente evidenziato. Abbiamo bisogno di eccellenze, ma anche di elevare il livello medio delle imprese e delle persone.
Il secondo piano riguarda la lotta contro i grandi squilibri che caratterizzano i mercati sul piano internazionale. Lo stiamo vedendo in questi giorni con la proposta della Jellen di tassare le multinazionali. Se questa proposta passerà, il mondo non cambierà. Ma il contenuto simbolico di questo annuncio è di grande importanza. Una globalizzazione sostenibile ha bisogno di rapporti economici che tengano conto dei vincoli della sostenibilità economica, sociale e ambientale.
L’Italia è per lo più costituita da tante piccole e medie imprese che hanno la possibilità di esistere e prosperare solo quando — raggiunto un adeguato livello professionale e tecnologico (prima questione) — possono operare in un’ecosistema adatto alle loro caratteristiche. Ed è anche su questo piano che il governo deve cercare di sviluppare un’azione forte e riconoscibile, sfruttando la grande autorevolezza del presidente del Consiglio nella Unione Europea e oltre.