Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
Il vero problema non è se il futuro presidente sarà di sinistra o di destra, ma se sarà un isolazionista, pronto ad abbandonarci al nostro destino, o un attivo internazionalista
Se, come appare assai probabile, i repubblicani non riusciranno a fermare la corsa di Donald Trump alla nomination, la sfida presidenziale sarà fra lui e Hillary Clinton. Quella sfida sarà anche, indirettamente, un test sulla maturità degli europei. Perché il modo in cui gli europei seguiranno (dagli spalti) quella tenzone, tifando per l’uno o per l’altro candidato, e gli argomenti che useranno per giustificare il proprio tifo, ci diranno se sono ancora il provincialismo e la miopia politica a dominare gli atteggiamenti di molti europei verso l’America o se, sotto la spinta dei crescenti pericoli che minacciano l’Europa, si saranno affermati giudizi più maturi, meno ingenui.
C’è la possibilità che gli europei si dividano tifando per l’uno o per l’altro per ragioni completamente sbagliate, ossia collocandosi da un lato o dall’altro della solita faglia, quella fra destra e sinistra. Con coloro che sono orientati a destra che si sentiranno in dovere di tifare Trump e quelli orientati a sinistra che si sbracceranno per Clinton (magari non perché la apprezzino particolarmente ma solo perché è l’unica diga che possa fermare il candidato repubblicano). Diciamo subito che gli europei hanno ottime ragioni per sperare in una vittoria di Hillary Clinton: solo che queste ragioni non hanno nulla a che spartire con la divisione destra / sinistra. Hanno a che fare con gli interessi dell’Europa. Che i concetti di destra e di sinistra siano ben poco utili in questo frangente, almeno dal punto di vista europeo, è provato anche dal fatto che se Bernie Sanders, lo sfidante di sinistra di Clinton, non fosse ormai in netto svantaggio e avesse ancora chance di conquistare la nomination democratica andrebbe considerato altrettanto pericoloso per gli europei di quanto sarebbe Donald Trump.
Dal punto di vista europeo, infatti, il problema non è se il futuro presidente sarà di sinistra o di destra: il problema è se sarà un isolazionista (come Trump o Sanders), pronto ad abbandonare l’Europa al suo destino, oppure se, nel solco di una tradizione che risale a Franklin Delano Roosevelt (parzialmente interrotta dalla presidenza Obama), sceglierà quell’internazionalismo che, variamente declinato, ha dominato la politica estera americana dalla Seconda guerra mondiale in poi. Per quel che sarà possibile, tenuto conto degli umori profondi dell’America che oggi pencolano verso l’isolazionismo, Hillary Clinton promette una continuità con il passato che verrebbe seppellito se vincesse Trump. Il programma di politica internazionale di quest’ultimo è chiaro: protezionismo economico e isolazionismo politico, combinati però alla volontà di usare di tanto in tanto la forza contro chiunque minacci gli Stati Uniti. È il contrario di quella «logica imperiale» che gli avversari dell’America le rimproverano. È una combinazione, o una sindrome, antica, fino ad oggi minoritaria sulla scena americana, ispirata, per lo storico Walther Russell Mead, alla presidenza di Andrew Jackson (1829 – 1837). Già gli europei, all’epoca delle presidenziali del 2008 (quando Obama vinse per il suo primo mandato) commisero l’errore di non capire che, quali che sarebbero state le sue eventuali benemerenze in politica interna, Obama rappresentava un orientamento di politica estera poco favorevole agli interessi europei. L’isolazionismo, nella tradizione americana, ha varie declinazioni: alcune vanno in direzione liberal (Obama), altre in direzione conservatrice (Trump).
Gli europei accolsero con entusiasmo l’elezione di Obama — in odio a George W. Bush — ma sarebbe stato sufficiente seguire la sua campagna per le primarie contro Hillary Clinton (che egli sconfisse), ascoltare i contenuti dei suoi discorsi, per capire che, anche allora, il candidato migliore alla presidenza — sempre dal punto di vista europeo — era proprio Clinton. Deve essere stato uno choc per molti europei che lo avevano applaudito scoprire, già nel primo anno della sua presidenza, quando arrivò in Francia per celebrare l’anniversario dello sbarco in Normandia, quanto Obama fosse culturalmente estraneo e disinteressato all’Europa: in quell’occasione fece un discorso in memoria dei caduti americani senza dire neanche una parola sui soldati europei o sugli storici legami fra il vecchio e il nuovo mondo. Alla Casa Bianca si era insediato un presidente che guardava soprattutto al Pacifico e che sembrava pronto ad allentare senza troppi rimpianti i legami transatlantici. Un presidente che avrebbe presto mostrato di non possedere una politica di alcun tipo per fronteggiare i rivolgimenti mediorientali, in un’area così vitale per gli interessi e la stabilità dell’Europa. Vero: Hillary Clinton è stata suo segretario di Stato e Obama ne appoggerà la campagna ma questa è solo politica, non può oscurare le differenze fra i due.
È anche possibile, naturalmente, che questa volta le cose vadano diversamente, ossia che gli europei si dividano fra Clinton e Trump non per le solite motivazioni ideologiche astratte ma per altre, più pragmatiche ragioni. Per esempio, potrebbe accadere che tutti gli amici europei di Wladimir Putin, di destra o di sinistra che siano, si mettano a tifare Trump. A Putin, infatti, un Trump alla Casa Bianca farebbe comodo: lascerebbe l’Europa sola a negoziare con i russi, da una posizione di debolezza, in tutti gli scacchieri (Europa orientale, Medio Oriente). Per coloro che invece sono preoccupati di fronte alla prospettiva di un’eccessiva influenza sulla politica europea di una Russia non bilanciata da nessuno, sarebbe inevitabile (ancora una volta, a prescindere da destra e sinistra) parteggiare per Clinton. Sarebbe interessante vedere molti più europei del solito discutere di elezioni americane nell’unico modo giusto: usando gli interessi dell’Europa come metro di giudizio. Sarebbe consolante. Significherebbe che, nonostante tutto, qualche speranza per l’Europa c’è ancora.