Il sostegno all’attacco di Hamas è l’ultimo capitolo di una trappola dalla quale l’Occidente non riesce a liberarsi
Centinaia di terroristi di Hamas furono addestrati in Iran poche settimane prima della carneficina di civili israeliani la mattina del 7 ottobre. Ora aumenta il flusso di armi iraniane verso la Cisgiordania, forse in preparazione di un «secondo fronte» sul quale impegnare le forze israeliane. Milizie jihadiste sostenute da Teheran e basate in Libano, Siria, Yemen, hanno intensificato i lanci di missili e droni non solo sul territorio israeliano ma anche contro i militari americani in Medio Oriente. Non è chiaro se il regime degli ayatollah iraniani voglia risucchiare il Grande Satana americano in questa guerra; oppure se voglia sondarne le «linee rosse» e metterne a nudo la vulnerabilità.
Questo è l’ultimo capitolo di una trappola iraniana dalla quale non riusciamo a liberarci. Dal 1979, quando la rivoluzione khomeinista rovesciò lo Scià e la presa di ostaggi americani all’ambasciata di Teheran distrusse le chance di rielezione del presidente democratico Jimmy Carter, l’Occidente non ha trovato la ricetta per neutralizzare l’antagonismo iraniano. Forse non ne abbiamo mai capito la vera natura. Troppe volte abbiamo interpretato delle manifestazioni di protesta a Teheran come segnali della imminente fine del regime.
La maledizione iraniana perseguita anche quella parte dell’area progressista che inneggiò all’ayatollah Khomeini nel 1979 perché era una spina nel fianco dell’America e di Israele, sorvolando sulla natura dispotica, reazionaria e oscurantista del suo regime: è la stessa logica che oggi alimenta le tante manifestazioni pro-Hamas nelle piazze europee e americane. Un’amnesia cancella l’orrore suscitato in Occidente dai terribili abusi contro le donne iraniane. Grazie al suo ruolo di protettore di Hamas ora l’Iran si trova «dalla parte della resistenza», secondo il termine in voga nei cortei.
Preoccupa la persistente incapacità dei leader americani di capire l’Iran, prevederne le mosse, attutirne la pericolosità. Washington ha oscillato fra l’uso del bastone o della carota, senza successo. Il tentativo «soft» perseguito da Barack Obama in sintonia con gli europei (e con la partecipazione di Cina e Russia), cioè l’accordo sul nucleare, è rimasto un piano incompiuto e avvolto da mille dubbi sulla sua reale efficacia, prima ancora di essere bocciato da Donald Trump. Quell’accordo — secondo i critici — offriva generosi benefici a Teheran, in cambio di limiti e controlli inadeguati sulla costruzione della bomba atomica. Agli occhi degli ayatollah Obama era il presidente della «linea rossa» proclamata nel 2012 contro Assad per dissuaderlo dalle stragi chimiche contro i civili in Siria: una minaccia ignorata senza conseguenze. La stessa illusione di rabbonire la teocrazia sciita ha spinto Joe Biden a pagare sei miliardi di dollari a Teheran in cambio di qualche ostaggio americano: per la Casa Bianca doveva essere un passo verso ulteriori accordi, l’avvio di una de-escalation e forse un rallentamento dei piani nucleari di Teheran. Intanto i pasdaran della rivoluzione islamica stavano addestrando Hamas in vista dell’assalto.
L’ultima prova di incomprensione dell’Iran l’ha data l’uomo chiave della politica estera americana, il consigliere strategico della Casa Bianca, Jake Sullivan. In un bilancio della presidenza Biden, dato alle stampe poco prima che cominciasse la mattanza di Hamas in Israele, Sullivan scriveva: «Il Medio Oriente è più tranquillo di quanto sia mai stato negli ultimi vent’anni».
Biden si apprestava a completare l’operazione iniziata sotto Trump con gli accordi di Abramo. Dopo il riconoscimento di Israele da parte di Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan, il gran finale doveva includervi l’Arabia saudita. Sarebbe nato un asse tra Israele e le leadership arabe moderate, modernizzatrici e sempre più laiche. Uno scopo era neutralizzare l’Iran. Biden, Netanyahu e il principe saudita Mohammed bin Salman non avevano previsto la ferocia della reazione iraniana.
In questi 44 anni di storia la teocrazia sciita è arrivata a una conclusione: il terrorismo paga. Con l’obiettivo proclamato di distruggere lo Stato d’Israele e sterminare gli ebrei, l’Iran ha allevato armate di sicari dal Libano alla Siria, dall’Iraq a Gaza allo Yemen, che consentono di terrorizzare e ricattare l’intero Medio Oriente senza esporre i mandanti. Il segreto è la parola «deniability»: la possibilità di negare il proprio ruolo dietro gli attentati e le stragi, in modo da non pagarne un prezzo diretto. Gli ayatollah sanno che quando scorre il sangue la «piazza araba» sta con loro contro i leader moderati, e questi ultimi sono costretti alla ritirata.
Ora la diplomazia Usa è mobilitata in un disperato tentativo di ricucire i rapporti con il fronte arabo moderato; da qui le pressioni su Netanyahu per circoscrivere le modalità dell’offensiva a Gaza. Ma il colpo inferto da Iran-Hamas è stato micidiale e non è detto che il cantiere aperto con gli accordi di Abramo sopravviva. Biden è di nuovo alle prese con il dilemma di tutti i suoi predecessori: che fare dell’Iran?
Gli unici che sembrano aver trovato un «manuale per l’uso» dell’Iran sono la Russia e la Cina. Quei regimi non hanno nessun valore in comune con il fondamentalismo sciita. Putin ha sterminato i jihadisti in Cecenia. Xi Jinping tiene un milione di musulmani uiguri in «campi di rieducazione» nello Xinjiang per estirpare la religione dalle loro teste. Ma Putin e Xi sono felici che l’Iran rovini i piani americani.
Un’ultima speranza (o illusione) circola a Washington sul possibile ruolo della Cina. Biden riceverà Xi Jinping a San Francisco a novembre per il vertice Asia-Pacifico. La Cina è il massimo importatore di energia dal Golfo Persico, come tale avrebbe interesse a non destabilizzare il Medio Oriente. In questo senso si spese per riannodare un dialogo tra Arabia e Iran. Biden tenterà di arruolare Xi in una nuova mediazione per spegnere l’incendio. Il precedente ucraino deve indurre alla cautela. Di fronte all’alternativa tra i propri interessi economici immediati, e la possibilità di sconvolgere un ordine americano-centrico, sull’Ucraina Xi ha preferito la seconda opzione. L’Iran forse gli serve di più nel ruolo del cattivo, come la Corea del Nord in Estremo Oriente.