Fonte: Corriere della Sera
di Mauro Magotti
Il debito «facile» che la pandemia mette a disposizione è l’occasione per un cambio di passo. Purché non si dimentichi che parte delle risorse europee vanno restituite
Con un debito che ha raggiunto i 2.600 miliardi di euro (160% del Pil), i 209 miliardi del Next Generation Eu (a cui si potrebbero aggiungere i 37 del Mes) sono per l’Italia davvero provvidenziali. Eppure, per quanto possa sembrare paradossale, il Recovery Plan sta risultando per il governo una prova più difficile del previsto.
Come è possibile che ci siano tante difficoltà a predisporre un piano di rilancio che può far conto su risorse mai viste? I problemi dei nostri assetti istituzionali e della macchina burocratica sono stati già ampiamente discussi. Ma non è solo di questo che si tratta. Al fondo c’è una questione culturale, una specie di «blocco» della nostra capacità di «credere» e quindi di costruire il futuro. Come ha osservato W. Benjamin, credito e debito sono due termini che l’economia moderna ha ripreso dal vocabolario religioso adattandoli alle proprie esigenze.
La tradizione protestante (di cui c’è ancora traccia in Germania e nei Paesi cosiddetti frugali) legava il debito, contrapposto alla virtù del risparmio, al senso di colpa. Mentre il credito — con l’obbligazione che comporta — era visto come lo strumento fiduciario per discernere le iniziative idonee a creare ricchezza privata e prosperità pubblica. Molto concretamente, il nesso debito-credito è stato il modo per gestire la delicata questione del rischio dell’agire economico che implica sempre un certo atto di «fede». Tanto nell’imprenditore (che deve «credere» nella sua idea) quanto nell’investitore (che a sua volta deve essere convinto della bontà della proposta).
Le cose però sono cambiate a partire dagli anni ’80, da quando cioè si sono create condizioni politiche (associate alla globalizzazione) e tecnologiche (associate alla capacità di calcolo) per far crescere la leva finanziaria e così sostenere i consumi pubblici e privati. Nel bene come nel male, ciò ha reso possibile una crescita straordinariamente accelerata anche se schiacciata sul brevissimo termine.
L’Italia ha interpretato nel peggiore dei modi quest’ultima fase storica: in un Paese (a tradizione cattolica) dove la colpa (e quindi il debito) è sempre remissibile, non è difficile capire il corto circuito che si è venuto a creare: come in altre democrazie fragili, il debito pubblico è diventato il buco nero dove si sono scaricati i nostri difetti atavici, lo strumento utilizzato per tirare a campare in una prospettiva di corto respiro. Si potrebbe dire che si è trattato di un debito senza obbligazione, svuotato cioè di ogni responsabilità verso il futuro.
Sul piano politico, la spesa pubblica è stata la via facile per vincere le elezioni (locali e nazionali) e assicurarsi così il consenso degli elettori, scaricando il costo sulle generazioni più giovani. Sul piano sociale, la finanza allegra è stata il modo per accontentare cittadini-consumatori in un mondo in cui il lavoro ha perso terreno a tutto vantaggio delle svariate forme della rendita contemporanea. Come dimostra la continua erosione dei redditi da lavoro sul valore aggiunto. In questo contesto, lo Stato è diventato un carrozzone dove, nonostante le ripetute dichiarazioni e i nobili sforzi di alcuni politici, ad abbondare sono stati sprechi e spese correnti.
Col tempo, l’attrazione dei rendimenti pubblici e le stringenti regolazioni sul credito (di origine europea) hanno reso sempre più difficile far arrivare le risorse a quella parte di economia reale che ancora regge la concorrenza internazionale. Col paradosso di un Paese indebitato dal lato pubblico e un forte risparmio privato (sui conti correnti degli italiani ci sono attualmente più di 1.600 miliardi di euro).
C’è dunque tutto il peso della nostra storia a spiegare perché il governo incontri tante difficoltà nella stesura del Recovery Plan. Sono anni che lo Stato italiano non è più in grado di svolgere il ruolo di quel «soggetto investitore» di cui oggi avremmo bisogno per cambiare passo e uscire positivamente dalla crisi pandemica. Così come sono anni che la società italiana è prigioniera di una cultura della rendita piuttosto che dell’investimento.
In questa situazione, la disponibilità di risorse finanziarie aggiuntive può aiutarci a interrompere il lungo declino del Paese; ma potrebbe altresì essere l’evento che fa saltare i fragili equilibri di questi anni. Non si dimentichi che una buona quota di queste risorse sono prestiti che andranno poi restituiti.
Hic Rhodus, hic salta. Nella partita del Recovery Plan si gioca davvero il nostro futuro. I rischi per l’Italia ce li ricorda la lingua latina: il liberto (da cui viene la parola libertà) è lo schiavo affrancato grazie al pagamento del suo debito. Per contro, l’addictus (radice che nell’inglese moderno si ritrova nel termine addiction che indica la dipendenza patologica) è l’uomo libero insolvente che cade in mano al proprio creditore.
Il debito facile e necessario che la pandemia mette a disposizione può davvero costituire l’occasione (nel senso di Macchiavelli) di un cambio di passo. Ma non c’è nulla di scontato. Anzi. Come abbiamo visto in questi mesi — e come si continua a vedere nelle vicende di questi giorni — il rischio è che si continui a pensare a un «debito senza credito». Cioè senza obbligazione, senza rischio, senza fede. Per scrivere il Recovery Plan occorre essere convinti che la prosperità durevole non nasce dal facile sfruttamento del presente, che allarga solo il debito, ma dalla (difficile) costruzione del futuro, cioè dal credito. Per investire, occorre avere un’idea di avvenire: in che cosa, alla fin fine, si è disposti a «credere»?