23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Marco Demarco

Si parla solo di autonomia territoriale ma è invece puntando sui giovani che si può far ripartire il Paese (e soprattutto il Sud)


Si parla molto dell’autonomia territoriale e poco di quella generazionale. Eppure è solo puntando sulla seconda, dicono i demografi, che il sommergibile Italia, in avaria per mancanza di equipaggio, pericolosamente incagliato sul fondale, prima o poi potrà riemergere. L’autonomia territoriale è quella chiesta dalle Regioni del Nord perché sono più veloci delle altre, perché non possono più aspettare il resto del Paese, e perché il resto del Paese non trarrebbe alcun vantaggio da un loro rallentamento. Ma i contrari temono un ulteriore divario Nord-Sud. Risultato: l’attuale braccio di ferro. L’autonomia generazionale è invece meno divisiva. Ma non è nell’agenda politica. E questo è un problema, perché più autonomia generazionale vuol dire mandare più giovani in campo, mandarli prima rispetto a oggi e averne in assoluto di più in un prossimo futuro. E vuol dire affrontare sia il tema strategico della «desertificazione umana del Mezzogiorno», come l’ha definita la Svimez, sia la «sindrome del ritardo», di cui più in generale, e da anni, parla invece Massimo Livi Bacci (lo ha fatto ancora nel penultimo numero di Limes, ed è sua l’immagine del sommergibile Italia).
Della desertificazione meridionale si sa: è l’effetto dei decessi che sopravanzano le nascite, del calo demografico che si registra al Sud più che al Nord, e della continua emigrazione di giovani, in modo particolare dei più istruiti, per cui oggi ci sono regioni come la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna che guadagnano popolazione e altre, tutte le altre, che invece ne perdono. Della sindrome del ritardo si sa invece meno. Ma è proprio questa la causa di tutto. Perché? Semplicemente, perché più tardi i giovani finiscono di studiare, più tardi cominciano, se cominciano, a lavorare; e più tardi si decidono a procreare. Tra l’altro, venti anni fa le donne tra i 20 e i 45 anni erano 10,5 milioni, mentre tra venti anni saranno 6,2 milioni, e questo non può che rallentare la crescita demografica e quindi rendere il Paese sempre più vecchio. Il ritardo da recuperare è dunque quello con cui i nostri giovani, rispetto ai coetanei di altri Paesi comparabili al nostro, raggiungo la piena autonomia: economica e non solo.
Da dove cominciare? Sovranisti e populisti intendono rispondere con il reddito di cittadinanza e con quota cento, ma entrambe le misure potrebbero rivelarsi insufficienti, se non controproducenti, là dove dovessero trattenere i giovani sul divano e aggravare lo stato dei conti pubblici. Da qui l’altra idea. L’altra autonomia da prendere in considerazione. A cominciare dalla questione centrale degli anni di studio utili per arrivare a un diploma o a una laurea. Tanto più che il ritardo con cui si entra nel mondo del lavoro è anche quello con cui ci si affranca dal divano e, fuor di metafora, dalla tutela genitoriale. La quale tutela funziona benissimo come ammortizzatore sociale per i giovani, ma malissimo come acceleratore delle dinamiche di sviluppo.
È un problema che riguarda il Nord come il Sud, ma anche su questo il Paese continua a essere molto diseguale. Nel Mezzogiorno, infatti, gli studenti continuano a diminuire in maggior numero (l’anno scorso gli iscritti a scuola sono stati, in Italia, 70mila in meno e di questi la gran parte, 59mila, al Sud) e sempre nel Mezzogiorno il tasso di occupazione dei diplomati (30,5) e dei laureati (43,7) è più basso non solo della media nazionale (48,4 e 62,6) ma anche di quello della Grecia (44,8 e 55,8).
Il dato comune, però, è che gli studenti italiani escono dalla scuola secondaria superiore troppo tardi: a 19 anni, un anno dopo rispetto a ciò che accade in molti altri Paesi. Un’incongruenza in sé. Ma ancora più evidente in un Paese che vuole incominciare a correre con l’autonomia territoriale. E infatti. Così com’è oggi, quest’anno in più «finisce per essere una zavorra» scrive Enrico Letta nel suo ultimo libro. Meglio sarebbe, suggerisce, abolirlo del tutto e innalzare contemporaneamente l’obbligo scolastico facendolo coincidere con la conclusione del ciclo di studi. Attualmente, l’obbligo è a 16 anni, ma i sedicenni non conseguono alcun diploma. Questo non può che farli sentire sospesi. In parcheggio. Destinati, appunto, a una lunga e dannosa dipendenza generazionale.

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