16 Settembre 2024

Il conflitto mediorientale e le possibili conseguenze di natura economica per l’Italia

Nella crisi del Mar Rosso, mentre si susseguono le azioni militari angloamericane contro i ribelli yemeniti Houthi, alleati di Hamas ed Hezbollah, ci sono molti più interessi italiani di quanto un governo per sua vocazione sovranista, lascerebbe intendere. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nell’intervista sul Corriere di ieri, precisa che l’appoggio agli alleati è solo politico e non militare, anche perché sarebbe necessario un voto del Parlamento che il governo Meloni non vuol chiedere. Tajani parla di un’ipotetica risposta europea — che coinvolga anche la Francia verso la quale proviamo una improvvisa e comoda empatia — i cui tempi non sono però compatibili con la gravità della minaccia alla libertà dei commerci. Il realismo di Tajani è condivisibile. Però nel momento in cui assistiamo alle operazioni contro gli Houthi temendo una escalation del conflitto mediorientale, è giusto che si abbia una percezione migliore delle possibili conseguenze di natura economica. Concentrarci su questo aspetto non vuol dire sottovalutare la tragica emergenza umanitaria. Tutt’altro. Le vie del compromesso, della riduzione delle attività belliche, dei pericoli terroristici, passano inevitabilmente dalla conoscenza e dalla valutazione degli interessi in gioco. Trascurarli non avvicina la pace, la allontana.
Il rarefarsi del traffico commerciale che passa per il canale di Suez svuota e danneggia i porti mediterranei, in particolare italiani, salvo poi alla ripresa, speriamo prossima, della regolarità dei collegamenti, congestionarli. Ed è curioso che alla coalizione, a guida angloamericana, partecipino Paesi come l’Olanda o la Germania, che potrebbero persino essere favoriti dalla quantità di navi costrette ad allungare di due settimane il loro viaggio, circumnavigando l’Africa (sei fra le prime dieci compagnie, tra cui Msc e Maersk, lo hanno già deciso), per arrivare in un porto europeo. Com’era accaduto nel 2021 per l’incidente del cargo EverGiven, che si era messo di traverso nel canale di Suez, anche in questa occasione scopriamo che, nonostante il gonfiarsi dei valori di tutto ciò che è digitale, l’economia è ancora fortemente materiale. Oltre il 90 per cento del commercio internazionale viaggia su nave. La flotta mercantile mondiale è cresciuta addirittura del 20 per cento in tre anni.
La tanto decantata deglobalizzazione è ancora uno slogan. L’incertezza e la pericolosità nel Mar Rosso, che si aggiungono alla modesta funzionalità di Panama, incidono fortemente sul funzionamento delle catene del valore (Tesla, Ikea e Volvo hanno già annunciato ritardi sulle consegne) e sui costi delle materie prime e dei prodotti finiti. Inevitabili le ripercussioni sui prezzi. Proprio oggi che abbiamo la percezione di aver sconfitto l’inflazione.
Da quando è esplosa la crisi allo stretto di Bab el Mandeb, i noli — che erano però scesi fortemente dal picco del 2022 — si sono triplicati. I premi assicurativi (che dipendono ovviamente dai carichi, più alti per esempio per il petrolio) sono aumentati in media da quattro a cinque volte. Il caso ha voluto che proprio da quest’anno, le compagnie marittime, se scelgono scali europei per le loro rotte, siano tenute a pagare non poco (fino a mezzo milione di euro a convoglio) per le quote di emissioni secondo il regime Ets (Emissions trading scheme). E devono ottemperare anche se scelgono per esempio di fare scalo a Gioia Tauro, provenienti dall’Oriente e dirette in Gran Bretagna che è fuori dall’Ue. A tutto vantaggio dei porti del Nord Africa. L’Italia dimentica spesso che la propria economia è più dipendente dal mare di quanto non si pensi. Parliamo molto di spiagge, poco di porti. L’esigenza di investire sull’adeguamento delle aree portuali è una priorità assoluta. Come emergeva nettamente dal piano dei trasporti e della logistica, poi abbandonato per effettuare scelte caso per caso, e dal lavoro della Commissione che ha studiato l’impatto del riscaldamento climatico sull’innalzamento dei mari e sulla funzionalità dei porti, anche alla luce degli impegni del Pnrr e dell’utilizzo di altri fondi. L’investimento previsto è di 6 miliardi. Importante poi l’approvazione, avvenuta ai primi di gennaio, del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc) che ora va applicato senza indugi.
Questa drammatica congiuntura internazionale può essere l’occasione per discutere, con uno sguardo di più ampia programmazione, sul futuro del sistema portuale, tenendo conto che il riscaldamento climatico — aprendo la rotta artica — rivoluzionerà le linee di collegamento con impatti ciclopici sulle diverse economie. L’Italia può svolgere un ruolo strategico, anche come partenza delle merci verso l’Africa per esempio, e dunque rafforzando l’operatività del cosiddetto piano Mattei. E forse, più in generale, qualche riflessione sul rischio che le navi — anche quelle da crociera, troppo alte — non passino sotto il futuro ponte sullo stretto di Messina, tagliando fuori porti e destinazioni turistiche, è quanto mai opportuna.

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