Fonte: La Repubblica
di Ilvo Diamanti
Si è aperta una stagione di democrazia diretta. Segnata da referendum con diverso contenuto e diverso significato. Dalla trivellazione dei pozzi alle riforme costituzionali. Ma il ricorso alla consultazione referendaria va ben oltre i nostri confini e le nostre questioni interne, per quanto importanti. Nel Regno Unito, infatti, nei prossimi mesi, si voterà per restare nell’Unione Europea. O meglio: per uscirne. D’altronde, gli inglesi non hanno mai amato troppo l’Europa. Come comunità economica. Tanto meno come soggetto politico. E questo sentimento si è complicato e accentuato negli anni della crisi economica, fra il 2008 e 2013. Quando il debito comunitario e degli Stati membri è cresciuto. Minacciando anche coloro che ne erano e ne sono meno responsabili. Come, appunto, la GB. Così lo spirito euroscettico si è diffuso e acuito. Solo un terzo degli inglesi, infatti, esprime fiducia nei confronti della UE. Come in Italia, peraltro. Dove, però, prevale un atteggiamento tattico e disincantato. Visto che la maggioranza della popolazione non “ama” la UE – e tanto meno l’Euro. Ma teme di uscirne. Per prudenza. Gli italiani: si dicono europei “malgrado”. Nonostante tutto. Gli inglesi molto meno. Il loro legame con le istituzioni europee è più precario. Perché confidano maggiormente nel loro sistema di governo. E, tanto più, nella loro moneta. In politica internazionale, peraltro, si sentono “atlantici”. Guardano, cioè, agli Usa piuttosto che all’Europa. Piuttosto che alla UE.
Così, l’atteggiamento euroscettico si è tradotto, sempre più, in voglia di distacco. Tanto che UKIP, il partito guidato da Nigel Farage che predica apertamente l’uscita dalla UE, alle elezioni europee del 2014 si è imposto come prima formazione, con oltre il 27%. L’emergenza sollevata dalla grande migrazione degli ultimi mesi ha accentuato le tensioni. All’interno del Regno Unito. E fra il Regno Unito e i Paesi europei. Per prima: la Francia.
Oggi, dunque, ci stiamo avvicinando a questo passaggio. Senza ritorno. Perché una vittoria del Sì – all’uscita dalla UE – aprirebbe una crisi probabilmente fatale in una costruzione fragile e instabile come la UE. Con il rischio di riprodurre le fratture anche nel continente. Dove i legami con l’istituzione europea risultano poco solidi. Ad eccezione che in Germania e nei Paesi dell’Est che ambiscono a farne parte.
I sondaggi, al proposito, confermano dubbi e incertezze. Visto che disegnano uno scenario aperto. Dove i Sì e i No all’uscita si equivalgono (intorno al 35-40%). Mentre gli indecisi sono ancora molti. Circa un quarto. E risulteranno, per questo, decisivi. Così, la campagna in vista della scadenza elettorale si fa sempre più accesa. E l’argomento che sta assumendo importanza crescente è il costo della Brexit. Per gli europei, ma ancor più per gli inglesi. La cui economia, si sostiene, soffrirebbe molto di questa “defezione”.
Tuttavia, questa minaccia non sembra scoraggiare chi, in fondo, ne tiene già conto. E, nonostante tutto, sceglie la strada della “secessione”.
Diverso, semmai, è il discorso per coloro che non sono inglesi. Anche se, in quanto, europei, verrebbero, inevitabilmente, coinvolti da questa scelta. Tuttavia, gli atteggiamenti, in proposito, appaiono differenziati e incerti. Perché, probabilmente, molte persone non ci hanno ancora pensato. Oppure perché, comunque, se è difficile per gli inglesi decidere, figurarsi per gli altri…
In Italia, comunque, metà della popolazione (intervistata da Demos) vede l’uscita del Regno Unito dalla UE con timore. Pensa che produrrebbe effetti negativi per tutti. Ma ciò significa che l’altra metà la pensa diversamente. In particolare, due su dieci non vedono conseguenze. Si tratta, soprattutto, degli elettori più disincantati e indifferenti. Gli astenuti. Non solo dalla politica, anche dall’Europa. Quelli che tracciano i confini del proprio orizzonte pubblico a poca distanza da loro. Una frazione molto limitata vede questa scelta pericolosa per gli inglesi ma non per l’Europa. Mentre è molto più elevata la quota di coloro che ritengono l’uscita del Regno Unito un problema per gli europei, ma, al contrario, un beneficio per gli inglesi. Poco inferiore è il consenso alla Brexit senza se e senza ma. Considerata un beneficio per tutti. Senza eccezione.
I tifosi della defezione sono, in tutti i casi, ben definiti e identificabili. Hanno, cioè, un profilo politico coerente. Partecipano, cioè, alla corrente euroscettica. Sono, infatti, particolarmente numerosi fra gli elettori della Lega e di Forza Italia. In misura relativamente più limitata, al M5s. Tra coloro che esprimono sfiducia nei confronti della UE, in particolare, sono tre volte di più che tra gli euro-convinti.
È facile comprendere la ragione di questo orientamento. Non è solo empatia e simpatia per coloro che dimostrano un sentimento coerente e vicino al loro. È di più. Identità. Sostegno a una vertenza condivisa. Anche in Italia. Cioè, c’è chi tifa per la Brexit. In modo aperto. Esplicito. Perché la vede come la possibile battistrada. Di una battaglia a cui altri movimenti di altri Paesi potrebbero aderire. Partecipare. Con successo. Chi tifa per la Brexit, in Italia, tifa per la fine della UE. Immagina e spera che la costruzione europea non solo subirebbe una battuta di arresto, ma avvierebbe un processo inverso. Di disgregazione.
Per questo il referendum inglese ci riguarda direttamente. Quanto, almeno, quello sulle trivelle. E persino il referendum costituzionale. Perché gli inglesi, in quell’occasione, voteranno anche per noi.