Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
Lo consigliano a mio avviso i numeri e la situazione generale del Paese
Più che in ogni altra occasione le righe che seguono esprimono un’opinione del tutto personale. Che è la seguente: nella situazione politica creata dai risultati elettorali del 4 marzo la cosa migliore da farsi è quella di andare in tempi brevi di nuovo alle urne. Lo consigliano a mio avviso i numeri, il loro significato, la situazione generale del Paese. E direi anche qualcos’altro: il buon senso. Certo, le combinazioni possibili sono molte giocando con i numeri sul pallottoliere. Da un governo Pd-Forza Italia con l’astensione della Lega e dei 5 Stelle o di uno solo dei due, a un governo 5 Stelle-Lega, a una coalizione tra i 5Stelle e il Pd astenuto o alleato: e di sicuro ne ho dimenticato almeno un altro paio o di più. Ma mi chiedo: è forse qualcosa del genere che l’elettorato ha chiesto con il suo voto? Un governo Franceschini–Di Maio? un ministero Renzi-Brunetta o Salvini-Di Battista? Sarebbe bene, credo, non tirare troppo la corda: anche con la proporzionale, anche con le liste degli eletti prefabbricate dai partiti e i candidati paracadutati, considerare gli elettori come un semplice parco buoi non è consigliabile. C’è un limite a tutto. Se si supera il quale diviene concreto il rischio che nasca nell’opinione pubblica un movimento dirompente di rifiuto e di disprezzo per le istituzioni dagli esiti imprevedibili. Il Presidente Mattarella ha ragione: va tenuto presente innanzi tutto l’interesse generale del Paese, ma tale interesse non è forse rappresentato innanzi tutto dalla democrazia, dalla sovranità popolare, dalla convinzione da parte dei cittadini del suo indiscutibile primato al di là delle più improbabili intese e combinazioni?
Si dice: «Va bene, si formi allora un governo che faccia poche cose, una nuova legge elettorale, e poi al voto». Ma vorrei sapere: quali cose di preciso? Nessuno, mi pare, ne ha la minima idea né alcuno si azzarda a dire perché mai su quelle «poche cose» dovrebbe trovarsi miracolosamente un qualche accordo tra forze così diverse. E quanto a una mitica «nuova legge elettorale», mi chiedo non solo perché mai 5 Stelle e Lega, che con quella in vigore hanno ottenuto risultati così favorevoli, dovrebbero essere indotti a cambiarla; ma soprattutto come è pensabile che forze politicamente eterogenee, anche molto eterogenee, si trovino poi d’accordo su una nuova legge elettorale, cioè su una tra le cose più intrinsecamente politiche che esistano.
Piaccia o non piaccia, il significato del voto, la direzione che esso indica, sono chiarissimi: un rinnovamento radicale del quadro e del personale politico. Il problema è che dal numero dei voti risulta incerto il segno politico da dare a questo rinnovamento — se un segno di riequilibrio a dominante egualitaria di tono meridional-statalista (Movimento 5 Stelle), ovvero di svolta securitaria di tono nazional-antieuropeo (coalizione di centro-destra egemonizzata dalla Lega) — dal momento che come è arcinoto i numeri premiano queste due formazioni ma a nessuna delle due danno la forza necessaria per governare. Che cosa c’è allora di più ovvio, mi chiedo, di più ragionevole, di più democraticamente coerente, del mandarle di nuovo di fronte al corpo elettorale perché tra le due ipotesi questo si pronunci in via definitiva?
Mi sembra già di sentire l’obiezione: e se dalla nuova consultazione da qui a tre mesi una tale pronuncia definitiva non venisse? Ebbene: allora sì che sarebbe inevitabile dare il via a un tortuoso e spossante itinerario volto alla ricerca di qualche soluzione di ripiego, di una maggioranza purchessia. Ma farlo oggi — a parte le debolissime probabilità di successo di un simile tentativo — sarebbe assai probabilmente inteso — e proprio da quella parte dell’opinione pubblica che ha vinto le elezioni — solo come un modo da parte dei poteri tradizionali di salvare il proprio ruolo, di sopravvivere al naufragio dei propri referenti. Quando parlo di poteri tradizionali non mi riferisco alle dirigenze di partito quanto soprattutto a quelle rancide élite burocratiche, professionali e intellettuali, a quei soliti nomi — annidati nei piani alti e altissimi delle istituzioni, abituati da decenni a gestire di fatto una rilevantissima parte dell’attività di governo attraverso le «consulenze», i gabinetti ministeriali, le Agenzie, le reti di relazioni, la Rai, i vertici delle aziende pubbliche, le istituzioni culturali, gli enti di ogni tipo — contro i quali il voto di domenica è stata un’indubbia clamorosa ancorché sgangherata espressione.
Naturalmente non mi nascondo che per un grottesco paradosso tipico della proporzionale il partito da cui oggi soprattutto dipende che cosa fare è il partito che ha perso rovinosamente le elezioni, cioè proprio il Partito democratico. A proposito del quale si parla molto — a ragione — della necessità che nelle sua fila (e dove altro se no?) inizi un processo di ripensamento/ricostruzione della sinistra. Bene: ma è davvero pensabile che ciò potrebbe avvenire se per avventura esso s’impegnasse in qualche forma di collaborazione (sia pure «dall’esterno») con i 5 Stelle, come qualcuno vorrebbe? È realistico credere che nel Pd qualcuno avrebbe mai la testa ai problemi, alla storia e ai destini della sinistra, che ci potrebbe mai essere l’esame o la discussione approfondita intorno a qualcosa, nel mentre che però ogni giorno al suo interno nascerebbero inevitabilmente dubbi e polemiche sui modi e i risultati della collaborazione di cui sopra, nel mentre che però ogni giorno ci si dividerebbe tra «governisti» e «antigovernisti», ci si accapiglierebbe sul che cosa fare l’indomani? Nelle situazioni d’incertezza e di crisi è necessario decidere. Oggi l’Italia ha davanti a sé due strade: o quella di aspettare, vedere, mediare, tentare un «governo di scopo», poi un altro «del presidente», e poi ancora chissà che altro; oppure andare a votare fra tre mesi. Solo votando si può sperare, almeno sperare, di decidere qualcosa.