Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Lepri
Il presidente Joe Biden ha fatto di tutto, in queste settimane, per rimettere insieme i cocci provocati dalle intemperanze isolazioniste del suo predecessore
Un ente inutile? La risposta è no. E nemmeno un’organizzazione vicina alla «morte cerebrale», come aveva pronosticato il presidente francese Emmanuel Macron.La Nato serve ancora e servirà nel futuro. Né più né meno come è accaduto in un recente passato che non è passato del tutto. Ai suoi confini, infatti, c’è la «minaccia» della Russia. I «Trenta» (da ieri siede al tavolo di Bruxelles anche la Macedonia del Nord) condannano le «politiche aggressive» di Vladimir Putin, sanno benissimo che cosa si pensa al Cremlino dei rapporti Est-Ovest e del confronto tra liberalismo e autoritarismo nelle relazioni internazionali. I pericoli sono molti e la guardia deve essere alta.
Ma sarebbe sbagliato fermarsi a Mosca. Un’alleanza strategica ha il compito di guardare lontano, anche molto più in là dei suoi confini, in un mondo dove si muove con determinazione un Paese come la Cina che pone «sfide alla sicurezza, alla prosperità e ai valori occidentali». Nel 2010, anno dell’ultima versione di quel «concetto strategico» che nei prossimi dodici mesi verrà riaggiornato, la Russia era citata dalla Nato come «possibile partner» e la Repubblica popolare era appena menzionata. Ora tutto è diverso.
Cambiare linguaggio è già un segno di vitalità, voler difendere la nostra libertà è qualcosa di più. Con lo stesso spirito, forse, che ha animato gli anni più gloriosi di un’organizzazione che contribuì a cambiare il corso della storia. Uno spirito presente, adesso, anche nelle parole del presidente del Consiglio Mario Draghi a conclusione del vertice di ieri: «Bisogna essere pronti ad affrontare tutti coloro che non condividono il nostro attaccamento all’ordine internazionale basato sulle regole e che sono una minaccia per le nostre democrazie».
Certo, ci è voluto tutto l’impegno del presidente americano, che ha messo subito in rilievo a Bruxelles la «fondamentale importanza» della Nato per gli interessi statunitensi. Joe Biden ha fatto di tutto, in queste settimane, per rimettere insieme i cocci provocati dalle intemperanze isolazioniste del suo predecessore e dalla sua viscerale antipatia nei confronti dell’Europa. Il rapporto transatlantico era stato compromesso da tensioni così forti che solo il senso di responsabilità e l’appartenenza politico-culturale ad una comunità indivisibile hanno evitato la catastrofe. Le accuse di Trump (chi non ricorda il viaggio a Bruxelles del 2017, quando «The Donald» pretese il denaro dei partner?) rischiavano di provocare una reazione a catena di lungo termine legata proprio alla percezione della stessa utilità dell’Alleanza. A quell’epoca era normale pensare che l’Europa dovesse «fare da sola». O che potesse andare ancora più in ordine sparso, al contrario, nel rapporto con i protagonisti di sfide che finivano per essere sottovalutate.
Ora, come dicevamo, il rischio di gettare la spugna troppo presto, mentre Russia e Cina tentano di imporre le loro priorità, è stato in gran parte ridimensionato. L’articolo 5 sulla difesa comune (che Trump si rifiutò addirittura di sostenere e che il suo successore ha definito invece «un obbligo sacro») potrà essere allargato agli attacchi cibernetici. Nelle 45 pagine del comunicato finale, inoltre, si elencano nuove minacce da affrontare tutti insieme per preservare la deterrenza: intelligenza artificiale, disinformazione, nuove tecnologie missilistiche. Ma con tutto il rispetto per questi importanti campi d’azione dove è bene dimostrare efficienza collettiva, la Nato sembra voler dire soprattutto, tra le righe dei 79 paragrafi licenziati ieri dai capi di Stato e di governo, che non ha nessuna intenzione di diventare irrilevante.
Se tutto questo è vero, il vecchio dibattito sulla «dimensione politica» dell’Alleanza prende un aspetto diverso. Privilegiare gli aspetti «non militari» della Nato per disinnescare il possibile contrasto con il rafforzamento della difesa comune europea sotto le bandiere dell’Unione sembra per certi versi una questione superata. Quella fondata nel 1949 a Washington è diventata oggettivamente un’organizzazione politica, chiamata a misurarsi su problemi legati alla globalizzazione. Tenendo soprattutto conto dello stretto legame esistente tra le minacce delle guerre tecnologiche e le ideologie autoritarie. Ora che i suoi «avversari» — diciamo così — sono Putin e Xi Jinping (ferma restando la volontà di incoraggiare il dialogo e la collaborazione su aree essenziali) la spinta ideale non può non affiancare, con nuovi strumenti, la capacità più generale di difendere dalle minacce i Paesi membri.
Come si concilia questa auspicabile mutazione progressiva di pelle con la presenza, all’interno della Alleanza, di «zone grigie»? Pensiamo naturalmente alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Non è assolutamente fantasioso pensare a delle «regole di condotta» vincolanti — sul piano della difesa dello Stato di diritto e su un ruolo non aggressivo nei rapporti internazionali — che possano innestare un meccanismo virtuoso. Anche in questo caso può essere decisivo il ruolo trainante di un presidente come Biden che ha chiara l’esistenza di un confronto, esteso a tutti i livelli nel mondo, tra democrazie e regimi autocratici. Lo si è visto peraltro anche nei giorni scorsi al G7 di Carbis Bay.
Una nuova dimensione dell’Alleanza vuol dire anche ripensare all’organizzazione interna, alla necessità di stimolare il coordinamento politico tra i Paesi membri. Non ultimo viene il problema della leadership, visto anche che l’attuale segretario generale, il norvegese Jens Stoltenberg, arriverà alla scadenza del suo mandato già nel settembre dell’anno prossimo. La ritrovata unità tra le due sponde dell’Atlantico, in un quadro di difesa dei valori, potrebbe essere rafforzata da una candidatura espressa da un Paese storicamente europeista, magari mediterraneo. Come per esempio l’Italia.