19 Settembre 2024

Alla fine, anche Giorgia Meloni ha avuto il suo “momento Liz Truss”. Liz Truss – come dimenticarla – è la premier britannica che nel settembre del 2022 ignorò o licenziò i suoi stessi tecnici e se ne uscì con tagli alle tasse completamente privi di coperture. Nel giro di poche ore i mercati fecero crollare i gilts, i titoli di Stato di Londra. Osservatori di ogni tipo spiegarono che Truss avrebbe dovuto correggere i suoi piani, ma lei sfidò tutti e perseverò. Perseverò finché fu costretta a una marcia indietro (e a dimettersi). Ora, non credo proprio che anche Meloni sarà costretta a dimettersi, ma sulla tassa sui profitti delle banche ha seguito l’arco di Liz Truss: mossa audace e improvvisata; rivolta di mercati e osservatori; promesse della protagonista di tenere duro di fronte alle avversità; infine, la resa. Più che “momento Liz Truss”, è il ciclo del populismo finanziario. Eppure da noi pone domande che vanno oltre l’operato del governo.
Mario Sensini spiega sul “Corriere” tutti i dettagli di come le banche, se vorranno, eviteranno la tassa. Ho l’impressione che questa saga non sia finita, ma essa è comprensibile solo sullo sfondo di un rapporto di forze fra le banche, lo Stato e le imprese o le famiglie in Italia nettamente a favore delle prime. Le banche dettano le condizioni. Gli indizi sono ovunque, non difficili da scorgere ben al di là del “momento Liz Truss” di Giorgia Meloni. E lasciamo perdere i tassi praticati sui prestiti alle imprese, saliti in Italia prima, più in fretta e di più che nelle medie europee e negli altri principali Paesi dell’area euro. Questo fenomeno potrebbe essere dovuto anche al fatto che l’intera economia è legata al costo del debito pubblico, i cui rendimenti notoriamente sono i più alti nell’area euro perché il rischio percepito è maggiore.

I rendimenti sui depositi delle famiglie
Guardiamo invece l’altro lato della medaglia: i rendimenti che le banche italiane offrono sui depositi alle famiglie, in confronto alle banche degli altri principali Paesi europei. Spoiler: in media le banche italiane, anche in questo caso, trattano i loro clienti visibilmente in modo più sfavorevole. Praticano i tassi più alti alla clientela quando prestano, ma i tassi più bassi quando invece è la clientela che presta a loro. Altra premessa prima di dare i dettagli: i confronti fra Paesi europei sui rendimenti riconosciuti ai depositi bancari vanno presi con un granello di sale; le storie, le culture e le modalità dei rapporti fra banche e risparmiatori variano secondo i Paesi. Anche con queste cautele, tuttavia, è chiaro che i depositanti italiani sono trattati un po’ peggio.

La situazione in Europa
Se si prende come riferimento luglio scorso (ultimo mese su cui esistono dati comparabili), in Italia il tasso medio sui depositi ritirabili in qualunque momento era allo 0,32% e il tasso medio sui depositi – inclusi quelli con vincoli di tempo per il ritiro – era allo 0,73%. Allora la Banca centrale europea aveva già alzato il tasso riconosciuto sulle riserve degli istituti commerciali al 3,75%. E negli altri grandi Paesi europei? In Francia i depositi nel “Livret A”, con conti di qualche decina di migliaia di euro e senza restrizioni di tempo al ritiro, rendevano già il 3%. La Germania ha prodotti bancari un po’ diversi, ma la liquidità vincolata su periodi brevi aveva rendimenti al 2,37%. In Spagna il Banco Bilbao Vizcaia (Bbva), secondo istituto del Paese con depositi per centinaia di miliardi, ha rotto gli indugi: offre il 5% su rendimenti vincolati ai dodici mesi – lo fa anche in Italia – mentre in caso di ritiro anticipato riconosce comunque un rendimento dell’1%.
Quanto alla Gran Bretagna, ovviamente è fuori dall’euro e la Bank of England ha tassi un po’ più alti della Bce, ma è facile trovare conti di deposito con diritto di ritiro senza vincoli di tempo e rendimenti al 5%. E non è un caso: lì la Financial Conduct Authority, il parlamento e il cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt hanno già incontrato molte volte i capi delle banche e chiesto loro di trasferire – con trasparenza – gli aumenti dei tassi anche a favore dei risparmiatori. Da noi abbiamo avuto solo il pasticciaccio sugli extra-profitti, ma nessuna azione coerente di regolatori e politici a favore della clientela minuta.

Con trattamenti più europei in banca le famiglie avrebbero più di 10 miliardi in più
Ora, ripeto la raccomandazione: non tutte le condizioni sono paragonabili alla lettera; eppure restano pochi dubbi su quale sia il Paese nel quale i risparmiatori sono presi meno sul serio. Per capire quanto, immaginiamo che si applichino alle famiglie in Italia le stesse condizioni che valgono in Francia. Lì in luglio il rendimento medio di tutti i depositi bancari delle famiglie era all’1,72%; qui nello stesso mese era dello 0,73%. Le famiglie in Italia hanno depositati 1.124 miliardi di euro e se potessero godere dei rendimenti francesi, le banche dovrebbero versare loro 11,1 miliardi in più all’anno. Avete letto bene. Mentre ci accapigliamo per poche centinaia di milioni di qua o di là in legge di bilancio, se avessimo trattamenti più europei in banca le famiglie avrebbero più di dieci miliardi in più. E le imprese quasi cinque miliardi in più. Ogni anno. Pensate alla differenza che farebbe per i consumi, la fiducia, gli investimenti, la crescita. Invece non succede. Non succede anche se il tasso della banca centrale riconosciuto agli istituti è esattamente lo stesso di quello degli altri Paesi. Ecco un indizio che in Italia le banche hanno un forte potere negoziale sui privati e sulle varie articolazioni dello Stato. E che quest’ultimo è molto meno efficace, per esempio, dello Stato britannico nel far sì che gli istituti trattino la clientela correttamente.

Il potere della banche
Bisognerebbe capire perché. E qui vorrei presentare la mia ipotesi: in Italia le banche sono troppo importanti nel finanziamento del debito pubblico, perché il governo o le autorità indipendenti osino incalzarle sul modo in cui trattano i privati. A giugno scorso (ultimi dati della Banca d’Italia) le banche detenevano titoli del Tesoro esattamente per 400 miliardi di euro, poco meno di un quarto dell’intero debito del governo centrale. Nei prossimi mesi dovranno ricomprare quei titoli quando scadranno e aiutare il Tesoro a collocare nuovi titoli in più sul mercato per almeno 130 miliardi di euro (un aumento senza paragoni da quando esiste l’euro). Quando dunque un ministro o un regolatore italiano si sveglia la mattina, non ha voglia di infastidire le banche: il suo primo pensiero va alla stabilità del debito. Non solo. Il regolatore e soprattutto il ministro hanno un oggettivo interesse nel fatto che i depositanti vengano trattati male sui loro conti, perché i bassi rendimenti possono spingerli a cercare più soddisfazione comprando – anche loro – titoli di Stato. Con la massa di nuovo debito italiano che sta arrivando sul mercato, il Tesoro continuerà ad offrire Buoni poliennali alla clientela al dettaglio. Anche se quest’ultima ne ha già fatto una scorpacciata: l’esposizione delle famiglie è già salita da 143 miliardi all’inizio del 2022 a 276 miliardi a metà 2023.
Così l’eterna spada di Damocle del debito contribuisce a dare alle banche una forza che esse trasformano in posizione di rendita ai danni di famiglie e imprese. Ma proprio l’esercizio di questo potere economico rende il credito più caro e il risparmio meno remunerato, in un modo che toglie vitalità ai consumi e agli investimenti e, in ultima analisi, nuoce alla crescita. E meno crescita porta più problemi sul debito, dunque più bisogno di aiuto delle banche da parte del governo, e così via. É una spirale che qualcuno prima o poi dovrà spezzare. Naturalmente ci sono altri modi in cui il debito pesa sulla crescita e altri modi attraverso cui le banche si ritrovano il coltello dalla parte del manico di fronte allo Stato. Per esempio, meno persone vorranno fare investimenti rischiosi in un nuovo ospedale o in un’impresa in vista di rendimenti al 5,5%, se il debito italiano rende comodamente il 4,5% con meno rischi sul capitale. E oltre ai 400 miliardi di euro in Btp, le banche ora sono creditrici del governo per quasi altri cento miliardi, avendo comprato i crediti d’imposta da bonus-casa. Non so se è chiaro, ma il messaggio è che questo debito pubblico stravolge i normali equilibri e sta soffocando il nostro dinamismo come Paese. Per mille canali diversi. Forse sarebbe ora di metterlo davvero in cima all’agenda.

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