23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Ferruccio de Bortoli

Serve riaprire un serio dibattito sulle banche, introdurre controlli severi e una disciplina dei conflitti d’interesse. La patina che avvolge vicende dolorose per i risparmiatori non lascia ben sperare. E subito business as usual

Il conformismo è una sottile malattia italiana. A volte invisibile. Fa molti danni. Le voci minoritarie, su diversi argomenti di rilevanza pubblica, sono viste sempre con sospetto. Un ostacolo alla soluzione dei problemi. Una fastidiosa perdita di tempo. Le tristi (per i risparmiatori) vicende bancarie non sfuggono a questa regola. Per anni, l’intera classe dirigente, non solo il governo, si è cullata nella convinzione che l’Italia fosse immune dalla crisi bancaria. Gli altri Paesi intervenivano con soldi pubblici ed europei (anche nostri) per salvare i loro istituti. Noi no, ci sentivamo migliori. Non era necessario. Una sola eccezione: i Monti bond per il Monte Paschi di Siena, peraltro rimborsati a tassi elevati. La narrativa autoconsolatoria è probabilmente all’origine della mancanza di un dibattito vero sull’introduzione delle regole europee del bail in, che trasferiscono in capo ai soli azionisti e obbligazionisti subordinati l’onere di eventuali crisi, prima pagate di fatto da tutti i contribuenti. Lamentarsi ora di norme scritte da altri (soprattutto tedeschi) a loro vantaggio, serve a poco. Dovevamo svegliarci prima.
La costituzione del fondo Atlante, con la partecipazione delle principali banche e della Cdp, la Cassa depositi e prestiti, costituisce un punto di svolta. Positivo. Uno strumento utile per garantire aumenti di capitale e gestione dei crediti in sofferenza, che impedirà ai cosiddetti fondi avvoltoio di portarsi via, con rendimenti stellari, un altro pezzo d’Italia.
Per le quattro banche salvate in parte con il decreto del novembre scorso (Etruria, Marche, Ferrara, Chieti) sono arrivate 26 manifestazioni d’interesse. Incoraggiante. I risparmiatori delusi sono in attesa che il decreto sui rimborsi, approvato ieri, diventi operativo. Sarà comunque difficile distinguere chi era in buona fede, ed è stato sostanzialmente truffato, da chi era conscio dei pericoli che assumeva sottoscrivendo capitale di rischio.
La lezione della crisi bancaria riguarda tutti, anche l’informazione. La vigilanza di Banca d’Italia e la Consob ne trarranno, si spera, le opportune riflessioni. I controlli interni ed esterni sono stati quanto meno insufficienti. Qualche autocritica pubblica aiuterebbe a fare meglio in futuro. Il funzionamento della centrale dei rischi dovrebbe suscitare più di una riflessione. E così la congruità delle pene, in un Paese in cui i colletti bianchi infedeli spesso la fanno franca. E trattengono non di rado il maltolto. Il credito è l’elemento essenziale di un’economia e il pilastro della fiducia di un Paese. Il fatto che alcuni reati gravi, come la corruzione tra privati, vengano perseguiti solo a querela (salvo che ne derivi una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni e servizi), è un limite assai serio. In realtà non avviene quasi mai. La pena varia da uno a tre anni. Non si possono usare le intercettazioni.
Al di là di queste considerazioni generali, c’è un argomento spinoso che non può essere eluso. Quello che è accaduto a Vicenza, ad Arezzo, a Montebelluna, a Lodi e in tante altre parti del Paese, ha qualche altra scomoda causa. E qui torniamo al conformismo che, in non pochi casi, si è trasformato in un orgoglioso patriottismo locale, in una cieca militanza territoriale. Una simbiosi perversa fra persone anche autorevoli, oneste, in buona fede, che ricoprono ruoli diversi, ma facendo parte tutti della stessa comunità, finiscono per convincersi delle verità di facciata. Trascurano numeri e realtà sgradevoli. Guardano con sospetto voci contrarie e fuori dal coro. Il senso di appartenenza sconfina nell’omertà. La retorica dei panni sporchi che si lavano in famiglia abbonda. Quando la situazione precipita è troppo tardi. E il danno inflitto a realtà di straordinaria laboriosità e cultura d’impresa, come i distretti produttivi che sono il sistema linfatico nazionale, è irreparabile. E ingiusto per comunità di grandi tradizioni e civismo.
Affinché i fatti non si ripetano, occorre una discussione aperta e sincera. Si nota, invece, una gran fretta di chiudere le porte sul passato e dimenticare. Come se l’oblio fosse un fattore di ripresa. I vertici di molte banche coinvolte sono cambiati, è vero. Ma non sempre è così. Le azioni di responsabilità? In città nelle quali ci si conosce tutti, meglio non farle. Non è opportuno. Chi ha comprato azioni della Popolare di Vicenza ha pagato anche più di 60 euro. Oggi non valgono quasi nulla. Eppure all’ultima assemblea, dei 2900 azionisti presenti, il 18 per cento ha votato contro, e il 43 per cento si è astenuto, sulla proposta di portare in giudizio i presunti responsabili del disastro. Non stupisce. Nel tempo, l’eccezione prevista dall’articolo 136 del Testo unico bancario (Tub) si è trasformata, un po’ dovunque, in una consuetudine consolidata. «Chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso una banca non può contrarre obbligazioni di qualsiasi natura o compiere atti di compravendita, direttamente e indirettamente, con la banca che amministra, dirige e controlla, se non previa deliberazione dell’organo di amministrazione, presa all’unanimità, e col voto favorevole di tutti i componenti dell’organo di controllo, fermi restando gli obblighi di astensione previsti dalla legge». Il galateo dei rapporti personali, spesso esterni e del tutto estranei alla banca, suggerisce accondiscendenza e cortesia. Sconsiglia rifiuti scontrosi che potrebbero essere controproducenti per il professionista che ha tanti clienti in città, per l’imprenditore in consiglio che non può schierarsi contro un collega di cui condivide la tessera associativa industriale, per il politico che vuole il consenso. Il consiglio non funziona più, la banca non fa il suo mestiere. È in ostaggio.
E qui arriviamo, in conclusione, a un tema ugualmente delicato. L’intreccio fra banca e impresa — che Raffaele Mattioli, l’indimenticato amministratore delegato della Banca Commerciale, definiva fratellanza siamese — riduce ulteriormente gli anticorpi del sistema, esalta i conflitti d’interesse. Una riflessione seria dovrebbe scaturire anche dal mondo imprenditoriale. Senza un dibattito aperto, governance migliori, controlli severi, gli scandali sono destinati a riprodursi. La patina di ipocrisia che avvolge vicende così dolorose per i risparmiatori e le comunità ingiustamente coinvolte non lascia ben sperare. Quando fa comodo la prescrizione morale è brevissima. E business as usual.

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